In Italia il lavoro conta sempre meno

Dobbiamo ringraziare Luca Fantacci e Geminello Alvi se è diventata di pubblico dominio un’altra grande impresa di politica economica del governo di centrosinistra: l’avvenuta flessione al minimo storico dell’incidenza dei salari netti sul reddito nazionale lordo disponibile. E dobbiamo ringraziare pure –ma un po’ meno- il Corriere della Sera, che alla notizia e alla sua analisi ha dedicato tutta la seconda pagina dell’inserto Economia (con richiamo in prima) del 15 gennaio u.s.: uno spazio di lettura frequentato più dagli specialisti che dai lettori comuni. L’Italia d’oggi incarna il seguente paradosso: al governo ci sono gli eredi dei partiti dei lavoratori, ma mai i lavoratori hanno goduto di una fetta tanto piccola del reddito nazionale, appena il 40,1 per cento (nel 1999). Il resto è assorbito da rendite, pensioni e profitti. Nell’85 la parte dei salari era ancora superiore al 50 per cento. Ma la svolta decisiva avviene nel ’93: da quel momento la parte dei profitti aumenta costantemente, quella del lavoro diminuisce costantemente. E quindi aumenta la disuguaglianza fra i più ricchi e i meno ricchi. Il problema principale di questo assetto, tuttavia, non è tanto nella distribuzione della ricchezza fra la popolazione: grazie alle rendite e alle pensioni la disuguaglianza in Italia resta piuttosto contenuta, e comunque inferiore a quella di Regno Unito e Portogallo. La questione è un’altra, come evidenzia giustamente Alvi: «Un’economia dei patrimoni fatta di pensioni e di redditi da patrimonio come quella italiana somiglia ad una lotteria assistita. E alla lunga annulla le migliori virtù economiche: spegne la laboriosità, disincentiva il risparmio, crea attitudini parassitarie».