Il Deserto dei Tartari
Irene non ha distrutto New York ma lo spirito americano
L’uragano Irene non sarà ricordato come la calamità naturale che ha seminato morte e devastazione nella più attiva città del pianeta, e tuttavia sarà registrato come un evento distruttivo di portata storica, secondo quanto aveva predetto il presidente Barack Obama. In considerazione della risposta che ha suscitato da parte delle autorità, la bufera con nome di donna resterà nella memoria come la congiuntura che ha segnato la definitiva distruzione dello spirito americano. Sostituito da quella che Il Foglio ha definito «iperprotezione di Stato», giustificata in nome del principio di precauzione. Una svolta che si aggiunge alla lista crescente di sintomi dell’inarrestabile declino degli Stati Uniti come paese guida in termini di civiltà e come potenza egemone. Il giudizio può apparire eccessivo tanto quanto eccessivi sono stati l’allarmismo di cui hanno dato prova Obama e Michael Bloomberg, il sindaco repubblicano di New York, e le misure precauzionali da loro messe in atto, s’è detto, per prevenire un’altra Katrina. Ma non lo è se consideriamo la weltanschauung messa in evidenza dalla faccenda. Il confronto che si sarebbe fatto fra il modo in cui la presidenza Bush aveva gestito l’emergenza prodotta dall’uragano che sei anni fa mise in ginocchio New Orleans e quello in cui lui aveva affrontato una calamità naturale paragonabile ha certamente guidato le azioni di Barack Obama.
Katrina aveva lasciato sepolti sotto il fango i cadaveri di quasi duemila americani e lasciò sepolto sotto le critiche il presidente G.W. Bush, che aveva voluto applicare alla lettera le procedure sugli interventi federali nelle emergenze locali; Irene avrebbe incoronato la previdenza, la preveggenza, il paternalismo del nuovo presidente che si intrometteva nelle vite private di milioni di newyorkesi, ma al solo benefico scopo di salvare le loro vite. Le cose sono andate in modo decisamente diverso, e ora il presidente è costretto a difendere le sue decisioni sulla sola base dei princìpi e della sua personale visione del mondo: lo stravolgimento delle vite dei cittadini per alcuni giorni e le enormi perdite economiche dovute alla paralisi imposta a New York sarebbero pienamente giustificati perché erano volti a impedire una catastrofe con perdite di vite umane che si sarebbe potuta verificare. Perfetto, però c’è un problema: gli Stati Uniti non sono nati sulla base della filosofia del rischio zero, ma esattamente su quella opposta, del rischio assunto con consapevolezza e con audacia. Se avessero applicato il principio di prevenzione dei rischi come Obama l’ha gigantescamente attuato nei confronti di Irene, i coloni americani non sarebbero mai approdati alle coste del Pacifico in California e nell’Oregon in poche decine di anni partendo dagli Appalachi, ma tendenzialmente in qualche decina di secoli o probabilmente mai. L’ostilità dei nativi e degli elementi naturali, la mancanza di un quadro legale di riferimento certo e di una rete minima di welfare sarebbero state condizioni ostative a qualunque tentativo di colonizzazione che non comportasse ingenti perdite umane e alte probabilità di fallimento. Non avremmo avuto l’epopea cinematografica del Far West, nel bene e nel male, ma soprattutto non avremmo avuto gli Stati Uniti di cui Barack Obama si inorgoglisce di essere oggi il presidente.
Per venire a tempi più recenti, gli Usa sono il paese di Charles Lindbergh, l’autore della trasvolata dell’Atlantico nel 1927, del programma Apollo che ha portato l’uomo a sbarcare sulla luna nel 1969, delle navi spaziali riutilizzabili Shuttle che hanno debuttato nel 1981. Imprese rischiose che hanno collezionato successi e fallimenti, trionfi e tragedie, ma il cui bilancio finale è una crescita delle conoscenze, delle tecniche e dello spirito umano. Se a governare gli Usa in quegli anni ci fossero stati i Bloomberg e gli Obama, o comunque altre figure incarnanti il nuovo spirito americano (o per meglio dire: post-americano) dell’avversione al rischio, nulla di ciò che i nostri occhi hanno visto sarebbe stato realizzato. Si è sempre detto che la differenza di fondo fra gli europei e gli americani è che i primi privilegiano la sicurezza, i secondi le opportunità; e per questo in politica gli europei privilegiano la ricerca della giustizia sociale rispetto al potenziamento della libertà individuale, mentre per gli americani le cose stanno viceversa.
Con l’irruzione dell’avversione al rischio nella mentalità comune americana e del principio di precauzione nelle politiche di governo le differenze suddette tendono a smussarsi, perché senza disponibilità al rischio le opportunità non si presentano più e la libertà individuale diventa meno importante. Se l’egemonia del principio di precauzione si fosse realizzata ai tempi di Henry Ford, non sarebbe sorta la civiltà americana dell’automobile, che è diventata dominante in tutto il mondo: più della crescita economica, occupazionale e di libertà individuale che l’auto prometteva e che ha effettivamente realizzato, avrebbero pesato le considerazioni intorno all’inquinamento atmosferico e agli incidenti mortali e gravemente invalidanti che ne sarebbero seguiti (anche questi, come le aspettative positive, si sono effettivamente realizzati). La crescente avversione al rischio dell’America contemporanea si spiega anche con il momento storico: le conseguenze della crisi finanziaria frutto di una patologia dell’esposizione al rischio, il bilancio complessivo non positivo delle due guerre (Afghanistan e Iraq) nelle quali gli Usa si sono azzardati nell’ultimo decennio hanno sospinto la mente americana sulla difensiva.
E proiettato in auge il principio di precauzione: meglio prevenire gli 11 settembre che affrontarli come occasione di espansione e di rinnovamento, visti i costi materiali e umani che la seconda opzione ha comportato. Ma per quanto comprensibile, la nuova mentalità è certamente causa di decadenza scientifica, quindi tecnologica, quindi economica, quindi politica. Come scrive Carlo Stagnaro citando Aaron Wildavsky: «Secondo la dottrina del “tentativo senza errore” nessun cambiamento verrà consentito se non c’è una solida prova che la sostanza o l’azione proposta non farà alcun male. È vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti». Cioè «l’avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente». Infine, s’è detto che le modalità della gestione dell’emergenza Irene da parte delle autorità e della mediatizzazione dell’evento sono state dettate da una suggestione tipica della cosiddetta ecologia profonda: l’idea che la natura periodicamente si vendica dell’uomo che ha turbato i suoi cicli, che il progresso umano è un atto di hubris che invita la rappresaglia delle forze elementari.
Forse c’è stato anche questo, ma più che altro come astuzia machiavellica: sfruttare il timore superstizioso del popolo per imporgli un esperimento di irregimentazione. Il principio di precauzione in realtà tiene i piedi ben piantati nell’illuminismo e nel pensiero moderno, è cioè un’altra incarnazione della volontà di potenza e di controllo assoluto dell’uomo sulla realtà. Al centro del principio di precauzione c’è l’idea che l’uomo deve accedere solo a esperienze entro le quali può esercitare un totale controllo. Dove il controllo umano non è garantito, dove l’aleatorietà, l’imprevisto e il non calcolabile si affacciano, l’uomo deve evitare di prendere parte. Perché tali esperienze riabiliterebbero l’ipotesi del divino, del sovrumano, di una rivelazione da fuori e dall’alto. Per continuare a credersi Dio, l’uomo moderno decide che il non fare è preferibile, in determinate circostanze, al fare. Ma questo, come s’è detto, a lungo andare determina un’involuzione del sapere e un invalidamento della libertà umana. Il problema sta proprio qui: la traiettoria del moderno va dall’acquisto impetuoso del sapere alla perdita progressiva del sapere. Con tutte le conseguenze, comprese quelle sociali, del caso.
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