
Io, medico, che ho fatto obiezione per dire sì alla vita e no alla disumana routine degli aborti
iovanni Coven è anestesista all’ospedale San Matteo di Pavia. Quando nel 1978 passò la legge sull’aborto, l’allora giovane medico alle prime esperienze si schierò subito in suo favore perché «pensavo di svolgere un’opera di bene». Per Coven era tutto misurabile con la ragione euclidea e la donna una figura calcolabile base per altezza: «Per me era un problema di proporzioni: la donna ha le sue fattezze, ha il suo bagaglio di esperienze drammatiche e difficili, ha una gravidanza indesiderata che rende insopportabile la vita. L’embrione è minuscolo, invisibile, muto. Poiché la donna viene da te, medico, e ti coinvolge emozionalmente con la sua vicenda, spesso costellata di esperienze di abbandono, di violenza, di miseria, tu che rispondi? All’aut-aut – o donna o embrione – io sceglievo in base alle dimensioni corporeee visibili». Così, per Coven «esistevano situazioni sofferte in cui la donna è sola e in cui l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è la soluzione. Poi esistono casi in cui anche tu medico ti accorgi che l’Ivg è una scappatoia. Ma, anche in questo caso, mi dicevo, chi sono io per poter fissare un limite fra i due estremi?». Il tunnel del dubbio conduceva a una sola uscita obbligata: «Lasciare a lei la scelta se tenere o meno il figlio». Come per tutti gli anestesisti, anche per le cure e gli sguardi di Coven passavano tante donne. «Fare aborti è un sacrificio, costa fatica, non è gratificante dal punto di vista professionale. Se lo fai è in nome di quello che ritieni un bene. Per un certo verso, senti quasi di compiere un gesto umanitario».
PIANO PIANO, UNO SI BRUCIA
Però. «Però poi finisci col raccontare barzellette mentre addormenti le pazienti». Però, ad un certo punto, questo vertiginoso sforzo titanico che vuole reggere sulle spalle il dolore del mondo si perde nella routine. «è normale. Nessuno regge. Innanzitutto mi accorgevo che per molte delle donne che sceglievano l’Ivg la scelta non era vissuta con quello stesso sentimento tragico e ideale che aveva spinto me a schierarmi per l’aborto. E in secondo luogo mi accorgevo di essere io il primo a non saper respirare ogni volta quello spirito umanitario che mi ero imposto. Così, anestetizzavo le pazienti che di lì a poco sarebbero passate per le mani dei medici con assoluta indifferenza, anzi, quasi rimuovendo il problema scherzandoci su, cercando di lavorare senza pensare». La meccanicità ha la sua domanda serafica: «Entravo in sala operatoria e chiedevo: ‘Quante ne dobbiamo fare oggi?’». Quella donna che si voleva liberare era diventata un numero, la prossima su cui mettere le mani.
Finché un giorno, Coven si chiese: «Ma che razza di persona sono diventato?». Ogni aborto lascia un malessere, un tormento che piano piano ti usura. «Uno si brucia». E la scottatura ha portato Coven, dopo sette anni, a cambiare idea e a fare domanda d’obiezione di coscienza. «Da solo non ce l’avrei mai fatta, ho dovuto avere paura per come mi ero ridotto. Poi ho trovato chi mi ha aiutato». Coven s’è convertito, è tornato a frequentare la messa e la Chiesa, oggi fa parte del movimento dei neocatecumenali. «Oggi, quando incontro una donna che desidera abortire, inizio a dirle: ‘Senta, lasci che le dica una cosa’». Poi comincia a raccontarle dei tanti modi con cui può salvare il frutto del suo grembo, le possibilità che ci sono perché quel bambino possa vedere la luce, «sempre nel rispetto della sua libertà», e chiedendo sempre e comunque di poter essere lui il primo ad essere accolto nella sua intimità, perché anche il secondo, il figlio, possa fare altrettanto. Coven, con un po’ di pudore, dice di capire bene i sentimenti dei quattro medici che al San Matteo hanno fatto domanda di obiezione di coscienza. «Non li giudico (figurarsi, con quel che ho combinato io), ho rispetto per la loro libertà. Dico solo che io oggi considero l’embrione qualcosa di sacro, cioè di intangibile, su cui Qualcuno ha posato il suo sguardo prima di noi».
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