INVESTIRE NEL FUTURO

Di Bottarelli Mauro
03 Febbraio 2005
Tony Blair ha alzato le tasse universitarie. Ma ha anche creato le condizioni per l’eccellenza e l’equità dell’istruzione. Una ricetta che Morando (Ds), De Maio (Cnr), Grassi (Lumsa) e Mauro (Fi) vorrebbero copiare

Trecentosedici a trecentoundici: la Camera (dei Comuni) approva. Detta così sembrerebbe che la risicata vittoria di Tony Blair nel voto sulla riforma delle tasse universitarie rappresenti un qualcosa di lacerante per il governo e il paese, visto che i Laburisti possono vantare una solida maggioranza di 161 deputati a Westminster. Certamente in parte questa analisi può essere condivisa ma non può rappresentare una sintesi esaustiva e univoca. Se infatti cinque voti di scarto non rappresentano una valanga plebiscitaria, bisognerebbe ricordarsi che fino a venti ore prima del voto il governo era sotto di 80 deputati: tutti venduti? Tutti servi sciocchi al servizio dei giochi di potere del Cancelliere dello Scacchiere, Gordon Brown, soccorritore interessato del primo ministro perché intento a creare le condizioni per la sua successione? No, trattasi di buonsenso e pragmatismo. Il compromesso raggiunto, in effetti, non è di poco conto visto che impegna il governo a compiere una verifica sull’impatto delle top-up fees sulle famiglie a basso reddito già nel 2005 invece che nel 2009 come programmato e vincola qualsiasi ulteriore aumento delle tasse al vaglio da parte della House of Commons di un nuovo “University Bill”. Concessioni importanti ma che, nei fatti, non intaccano il core della riforma voluta fortemente da Blair e il suo spirito di giustizia sociale verso chi, altrimenti, rischiava di non poter andare all’università. Ma vediamola nei dettagli questa riforma, brandita come un manganello politico da molti ma mai sviscerata nei suoi contenuti (forse perché scomodi per gli oppositori). Attualmente le tasse universitarie in Gran Bretagna ammontano a 1.125 sterline l’anno, cifra che adesso potrà essere elevata fino a 3.000 pound, differenziata per ogni corso di studi. Gli studenti, però, non pagheranno nulla all’inizio del loro percorso formativo: le tuition fees, infatti, si tramutano con la riforma in una sorta di prestito d’onore ripagabile dopo la laurea e quando si guadagnerà almeno 15.000 sterline l’anno. Unico vincolo, il prestito dovrà essere restituito nella misura minima del 9% all’anno. Con la riforma gli studenti più poveri pagheranno 1200 sterline in meno rispetto a quelli provenienti da ceti medio-alti. Inoltre sono previsti esoneri dal pagamento (la famiglie con un reddito annuo inferiore a 30.000 sterline sono esentate dal pagamento), sovvenzioni (da quest’anno le famiglie con un reddito annuo inferiore a 21.185 sterline avranno una sovvenzione di 1.000 sterline, che diventeranno 1.500 dal 2006) e borse di studio (le università che vogliono aumentare le loro tasse di iscrizione dovranno infatti garantire borse di studio da 300 sterline per gli studenti meno abbienti). Di più, chi nonostante la laurea non riuscisse a trovare lavoro vedrà il proprio debito cancellato dopo 25 anni. Dello stesso beneficio, inoltre, usufruiranno anche i laureati che, da lavoratori, percepiranno redditi bassi. Il governo britannico ha calcolato che il tempo medio richiesto per estinguere il debito d’onore contratto dallo studente (con un range che va da un minimo di 14.000 sterline a un massimo di 65.000) sarà di circa 18 anni: una sorta di mutuo, ma da pagarsi gradatamente e con laurea e lavoro in tasca. E non è ancora tutto: il pacchetto di riforme per l’educazione varato dal governo Blair non si limita all’istruzione universitaria, ma parte fin dagli anni dell’asilo con i crediti d’imposta child tax credits e il programma “Sure Start” che garantisce supporto alle madri. E poi un anno di congedo per maternità, congedo di paternità retribuito e un fondo personalizzato per ogni bambino fino ad arrivare al programma “Learn Direct” per le secondarie. Si parlava e sparlava, tanto, di rivolte all’interno degli atenei (fuori da Westminster a protestare c’erano ventidue – 22 – studenti ben intruppati dall’ala sinistra del Labour), di rettori sul piede di guerra: in parte è vero, ma per la ragione opposta. Ovvero, perché ritengono che le tasse siano ancora troppo basse per poter risanare il sistema universitario, come denunciava l’ultimo numero dell’Economist. Questo il paradosso: Blair ha infatti rischiato seriamente di deragliare, sabotato dall’ala sinistra del partito, proprio sul provvedimento più leftist che abbia mai preso. Al riguardo abbiamo interpellato il senatore Enrico Morando, blairiano di ferro ed esponente dell’ala liberal e riformista dei Ds. «Per avere un quadro chiaro e soprattutto onesto della riforma, bisogna considerare tutto quello che essa contiene, non solo l’aumento delle tasse, visto che al suo interno trovano grande spazio concetti come la maggiore autonomia alle università e una serie di esenzioni e aiuti ai meno abbienti. Particolarmente interessante, poi, è la questione del prestito d’onore, un meccanismo fondato su di un principio difficilmente discutibile, soprattutto da un punto di vista di sinistra: parlando di università, di istruzione superiore, infatti, una soluzione egualitaria rischia soltanto di prendere ai poveri per dare ai ricchi. L’università offre a chi la frequenta con successo una chance di reddito più elevata di chi non riesce a frequentarla: qui entra la logica del prestito d’onore, una logica di sinistra perché aiuta la formazione del giovane il quale, domani, sarà chiamato a sua volta ad aiutare lo Stato garantendo pari possibilità a chi è meno fortunato. La scelta dell’egualitarismo delle tasse basse aveva un senso quando (ad esempio nell’Italia degli anni ‘60 e ‘70) c’era una elevata mobilità sociale ma quando le società tendono a cristallizzarsi e le possibilità del figlio di un operaio di andare all’università sono vergognosamente più basse, lo Stato allora deve dare una chance a questo ragazzo: per questo è ingiusto che questi costi vadano a pesare sulla fiscalità generale, ovvero sui soldi versati anche da chi all’università non c’è andato o non potrà andarci. C’è poi un ultimo punto di fondamentale importanza: la debolezza qualitativa delle nostre università rispetto a quelle americane, un dato di fatto allarmante che ha pesato molto sulla scelta di Blair. Questo dato, infatti, provoca un’elevatissima mobilità dei giovani nel mondo e questa migliore performance americana scava un fossato tra gli Usa e noi: nella società della conoscenza accettare questa superiorità significa accettare il proprio ruolo subalterno rispetto a un concorrente. Dobbiamo quindi prendere atto dell’esistenza del problema e interpretarlo in una chiave risolutiva europea: in America ci pensano in gran parte i privati a garantire l’eguaglianza delle possibilità d’accesso, in Europa deve pensarci l’intervento pubblico».
Favorevole alla ricetta Blair anche Adriano De Maio, già rettore del Politecnico e oggi della Luiss e consulente del ministro Letizia Moratti, secondo il quale la logica del prestito d’onore potrebbe essere importata con successo anche in Italia ma soltanto partendo dalla laurea specialistica, ovvero conciliando un livello di rischio quasi zero che invogli le banche a concedere fideiussione a un più alto tasso di meritocrazia che garantisca la gradualità necessaria all’applicazione di un modello esterno senza adeguati presupposti. Entusiasmo per la riforma anche da parte di Onorato Grassi, docente di filosofia presso la Lumsa di Roma, secondo il quale quella britannica rappresenta «una formula intelligente su cui Blair ha molto rischiato in termini politici ma che dimostra come il primo ministro veda giustamente nell’istruzione superiore e nella ricerca la chiave di volta per vincere la sfida del futuro. Quello britannico, infatti, è un meccanismo per garantire risorse all’università senza sottrarle ad altri settori, senza incidere sulla fiscalità generale. Si tratta di un investimento sul capitale umano di notevole spessore, che inoltre getta le basi per un rapporto fiduciario tra il singolo e la collettività. Per quanto riguardo la ricetta di De Maio sull’applicabilità di questo modello in Italia, penso che risenta giustamente del dato di mortalità universitaria molto alta che presenta il nostro paese: il concetto di prestito su una base che si riduce in breve tempo perde efficacia, per questo è giusto parlare di specializzazione. E poi non scordiamo la cosa più importante: lo studio è un diritto soltanto nella misura in cui il grado di formazione che viene impartito è di qualità: il diritto a una cattiva educazione, a un’università inefficiente, non esiste».
E in Italia? La ben meno rivoluzionaria riforma Moratti dei cicli scolastici, prima ancora di entrare in vigore, si è vista contestata da una marea urlante di madri isteriche, insegnanti schierate in difesa dei propri interessi corporativi e bambini intruppati nelle schiere sindacali come piccoli kamikaze nei cortei di Hamas, con cartelli in difesa del tempo pieno al posto della cintura esplosiva giocattolo. Perché questo paese non riesce ad essere, almeno una volta, normale?
Prova a rispondere Mario Mauro, europarlamentare di Forza Italia, secondo il quale «in questo paese di riforme si muore, ci sono volute vittime sacrificali vere e proprie per mettere mano al mercato del lavoro. La differenza sostanziale è che quando morì Massimo D’Antona il centrosinistra si fermò nella sua azione riformatrice, il centrodestra invece ha onorato la memoria di Marco Biagi portando a compimento il suo lavoro. Per quanto riguarda la scuola possiamo dire che riformare i sistemi educativi significa scatenare cori di voci minacciose con toni da guerra civile: è l’emergere dell’ideologia, che come sempre fa il gioco della difesa dei diritti corporativi e della conservazione mentre le riforme devono essere fatte principalmente negli interessi dei destinatari ultimi e non degli addetti del settore e dei loro ricatti».

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