Investire sull’idrogeno per non dipendere dall’elettrico cinese
È diventato praticamente impossibile guardare la tivù per più di un quarto d’ora senza essere bombardati da inserzioni pubblicitarie che magnificano l’opportunità di acquistare auto elettriche ed ibride con l’ausilio di ecobonus e incentivi statali. Fca, Audi, Mercedes, Renault assediano i telespettatori italiani con spot che invitano a sostituire il loro vecchio veicolo seguendo i dettami del Green Deal.
Leonardo Di Caprio spiega che acquistare una Fiat 500 elettrica è l’unico modo possibile per salvare il pianeta da un degrado mortale. Sul Financial Times del 20 ottobre, invece, il generale James Conway, già comandante del Corpo dei Marines, e Peter Ackerman, il teorico del conflitto strategico non violento, hanno messo il mondo in guardia sul fatto che puntare sulla mobilità elettrica significa rendersi strategicamente vulnerabili nei confronti della Cina, ovvero consegnarsi mani e piedi legati all’egemonia del Dragone.
Il primato cinese
Perché? Perché
«nella sua iniziativa Made in China 2025, Pechino ha identificato una varietà di industrie di considerevole significato strategico ed economico emergente, compresi (…) i veicoli elettrici e le batterie che li alimentano. Il paese che guiderà questa transizione sarà anche la nazione che stabilirà gli standard e i termini di scambio per il futuro del trasporto. Decisivo per guidare la transizione è il possesso della catena di approvvigionamento dei veicoli elettrici (VE), dai minerali ai mercati, e la Cina ha fino ad oggi lavorato duramente per arrivare a esercitare un vasto controllo sulle materie prime e sulla lavorazione dei minerali indispensabili necessari alle batterie e alle componenti dei VE e di altri veicoli mossi da nuovi carburanti. L’attuale primato della Cina è indiscutibile. Più del 70 per cento della capacità manifatturiera globale di produrre batterie per VE si trova in Cina, mentre gli Stati Uniti dispongono di meno del 10 per cento. Delle 142 mega-fabbriche per la produzione di accumulatori (batterie) agli ioni di litio nel mondo, ben 107 sorgeranno in Cina, appena 9 negli Usa. La Cina inoltre produce più del 60 per cento dei catodi e l’80 per cento degli anodi per batterie del mondo, e la maggior parte dei magneti permanenti utilizzati nei motori dei VE».
Per essere precisi aggiungendo alcune cifre a quelle citate da Conway e Ackerman, attualmente la Cina dispone del 73 per cento della capacità produttiva mondiale di batterie agli ioni di litio, valore che nel 2029 scenderà, secondo le proiezioni di Benchmark Mineral Intelligence (la più importante agenzia di rilevazione dei prezzi di litio, nickel, cobalto e grafite), al 69,5 per cento. A recuperare un po’ di terreno sarà soprattutto l’Europa, che attualmente dispone del 6 per cento e nel 2029 dovrebbe salire al 16 per cento. In quell’anno l’Europa dovrebbe disporre di 14 mega-fabbriche di batterie al litio per auto elettriche, concentrate principalmente in Germania (5), Ungheria (3) e Svezia (2). Quasi 8 volte meno di quelle cinesi.
L’importanza delle terre rare
Non è questa l’unica problematica in termini strategici dell’opzione elettrica. C’è anche il problema delle terre rare, un gruppo di 17 elementi chimici cruciali per la produzione non solo di VE, ma anche degli armamenti di ultima generazione (caccia F-35, sistemi di guida dei missili, sommergibili nucleari) e dei telefoni cellulari: nell’apparecchio che usate possono trovarsi fino a 16 diversi minerali di questo gruppo. Oggi il 90 per cento di essi è estratto e lavorato in Cina oppure arriva da fuori ma viene processato da aziende cinesi. Questo non dipende da una scarsità assoluta delle terre rare, che in realtà sono presenti in tutto il mondo, ma dal fatto che la loro bassa concentrazione richiede forti investimenti per creare attività che abbiano qualche margine di profitto. Negli Stati Uniti, dove terre rare esistono ma la produzione si era completamente arrestata prima che il presidente Trump intervenisse con un ordine esecutivo che incaricava le forze armate di riorganizzare l’intera filiera per l’estrazione e la lavorazione dei minerali rari, si calcola che un impianto completo per l’estrazione e la lavorazione costi 100 milioni di dollari. La Cina si è mossa fin dagli anni Ottanta, e oggi ha il monopolio del settore. Questo significa che nel contesto di una crisi commerciale e politico-militare, i cinesi potrebbero decidere di non esportare più i 17 minerali: metterebbero in crisi tutto il sistema della difesa degli Stati Uniti e azzopperebbero l’industria automobilistica europea, che vale 10 milioni di posti di lavoro.
Come uscire da questa trappola? Secondo gli autori dell’intervento sul Financial Times occorre investire in ricerca e sviluppo per poter fare a meno in futuro di questi minerali strategici, aumentare il tasso di riciclaggio, concludere accordi con altri paesi per creare una filiera distinta da quella cinese. Ma sarebbe possibile anche un’altra soluzione, che in Europa è presa seriamente in considerazione: imperniare la transizione ecologica della mobilità non sui motori elettrici, ma su quelli all’idrogeno. Qui l’Occidente (e in particolare l’Europa) sarebbe ancora in tempo a prendere la leadership globale.
Puntare sull’idrogeno
La Ue ha deciso che l’idrogeno dovrà avere un ruolo nel Green Deal. Nel luglio scorso la Commissione Europea ha pubblicato la sua “Strategia dell’idrogeno” che fissa come obiettivo europeo quello di installare elettrolizzatori per avere 6 gigawatt di idrogeno rinnovabile entro il 2024 e 40 entro il 2030. La prospettiva in cui ci si muove è quella che stima che nel 2050 il 24 per cento di tutta la domanda di energia mondiale sarà soddisfatta dall’idrogeno. Nel libro Green Hydrogen for a European Green Deal A 2×40 GW Initiative scritto dai professori Ad van Wijk e Jorgo Chatzimarkakis su commissione di Hydrogen Europe (l’associazione che riunisce l’industria europea dell’idrogeno, centri di ricerca e i costruttori di celle a combustibile) si legge:
«L’Unione Europea insieme al Nordafrica, all’Ucraina e ad altri paesi vicini ha un’opportunità unica di realizzare un sistema di idrogeno green. (…). L’Europa può riutilizzare la sua infrastruttura di gasdotti con le sue interconnessioni al Nordafrica e ad altri paesi per trasportare e stoccare l’idrogeno. E l’Europa dispone di un’industria dell’idrogeno all’avanguardia per la produzione di idrogeno pulito, soprattutto per la manifattura di elettrolizzatori. Se l’Unione Europea, in stretta collaborazione coi paesi vicini, vuole costruire a partire da questi asset unici e creare un’industria all’avanguardia nel mondo per la produzione di idrogeno rinnovabile, il tempo di agire è adesso. (…) Un prerequisito è che un mercato per elettrolizzatori della capacità di 40 GW nell’Unione Europea e nei paesi vicini (per esempio Nordafrica e Ucraina) venga sviluppato il prima possibile».
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!