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Intervista – Simone Menegoi racconta la materialità della fotografia
La terza tappa del progetto The Camera Blind Spot, realizzato in collaborazione con la Banca di Bologna, partner del progetto, pone in special modo l’accento sulla fotografia, pur non omettendo l’altro termine della questione, cioè la scultura. Ci può riassumere brevemente il suo percorso di riflessione a partire dalle prime due tappe del progetto (MAN di Nuoro e Kunsthal di Anversa) fino alla mostra bolognese?
L’intero progetto è nato dal mio interesse per l’opera fotografica di Medardo Rosso, di cui sono venuto a conoscenza intorno alla metà degli anni Novanta. È stato il mio accesso alla storia del rapporto fra scultura e fotografia; una storia che risale alle origini del medium fotografico stesso, un dialogo fitto e animato che non si è mai interrotto. Neppure oggi. The Camera’s Blind Spot non era nato come un ciclo, lo è diventato in corso d’opera. Ciò significa che il primo episodio (e, in parte, anche il secondo), non prevedendo un seguito, cercavano di compendiare tutte le principali declinazioni attuali del rapporto scultura-fotografia, e due in particolare: la tendenza della scultura a trasformarsi in immagine (vedi il caso spesso ricordato di Giuseppe Gabellone, che ha realizzato numerose sculture solo per trarne un’immagine) e la tendenza della fotografia a farsi scultura, oggetto tridimensionale vero e proprio. Venendo dopo due predecessori ad ampio spettro, il terzo episodio, quello di Bologna, può permettersi di concentrare la propria attenzione su un aspetto molto più specifico: l’insistenza, da parte di autori che lavorano con tecniche fotografiche, sul côté materiale (e tecnico) della fotografia, sia che riguardi la ripresa e i suoi strumenti, sia la stampa, sia i supporti della stampa. Un approccio scultoreo alla fotografia, diciamo così.
Ci ha particolarmente incuriosito il lavoro di Attila Csörgő, che è anche l’artista la cui opera, Semi-Space, è stata scelta per connotare l’immagine della mostra. Un’opera che appare complessa e, dal punto di vista tecnico, fragilissima. Ci racconta come l’artista l’ha realizzata?
Semi-Space è la sintesi fotografica di tutto ciò che sta davanti e dietro, a destra e a sinistra, e anche sopra, un determinato punto di vista. È evidente che questa sintesi, per essere correttamente leggibile, non può essere bidimensionale: deve essere un solido. Per dare corpo a una simile intuizione, l’artista ha utilizzato una semisfera di plexiglas. Ne ha rivestito la superficie interna con emulsione fotografica e l’ha usata come “negativo” di una macchina fotografica che ha costruito da sé: una macchina motorizzata che ruota su sé stessa dall’alto verso il basso descrivendo una spirale. Così facendo scansisce tutto lo spazio circostante e al tempo stesso impressiona, una porzione dopo l’altra, il suo “negativo” semisferico. Sia la macchina che l’oggetto fotografico che produce sono, per quanto ne so, unici nel loro genere.
Parliamo infine delle opere degli artisti italiani che vedremo in mostra. Autori giovani, molto differenti tra loro, come Cantori, Fregni Nagler, Sandri e Trevisani, ma anche artisti più storicizzati, come Guerzoni e Gioli. Quale aspetto del loro lavoro le è sembrato maggiormente “funzionale” al concetto di fondo della mostra?
Sono artisti di generazioni diverse e poetiche ancora più diverse. Credo sia interessante vedere come, da posizioni così distanti, convergano su un terreno comune: quello di un uso non convenzionale della fotografia, della volontà di impadronirsi della sua dimensione fisica per esplorarla, come diceva Duchamp del modo di lavorare di Brancusi, “fin dentro le molecole e gli atomi”.
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