"Comunitario nella realizzazione". L'indispensabile indicazione di don Giussani per il Sinodo dei giovani

Di Peppino Zola
29 Aprile 2018
La quarta osservazione di metodo scritta dal Servo di Dio don Luigi Giussani, che mi sembra indispensabile per chi voglia annunciare Cristo ai giovani



Caro direttore, la quarta osservazione di metodo scritta dal Servo di Dio don Luigi Giussani, che mi sembra indispensabile per chi voglia annunciare Cristo ai giovani (come il prossimo Sinodo a loro dedicato), è indicata con il titolo “comunitario nella realizzazione” (Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, pag. 42-53).
Come al solito, don Giussani è molto preciso e perentorio:

Per quanto intelligente, volonteroso e attivo, uno sforzo per proporre la realtà cristiana che volesse rimanere individuale e prescindesse da un sistematico riferimento alla comunità non sarebbe uno sforzo sicuro… sarebbe una testimonianza fittizia, perché la persona non si metterebbe semplicemente a proporre la realtà cristiana, ma affermerebbe un suo limitato modo di vedere… L’atteggiamento individuale costituirebbe senza dubbio una situazione precaria, perché a lungo andare l’individuo, da solo, non può resistere nel servire gli ideali: è troppo debole di dentro, e di fuori il “mondo”, cioè l’ambiente che deve essere affrontato, è troppo forte… La vita comunitaria è come il suolo su cui la pianta della libertà può dare frutti maturi… un atteggiamento individualistico sarebbe contrario a ciò che Cristo ha esigito dai suoi discepoli».

In parole povere, don Giussani ci dice che, senza una sistematica esperienza comunitaria, il giovane non solo non può incontrare veramente il cristianesimo, ma non può neppure crescere, non può diventare veramente adulto nella fede, a meno che non si voglia ridurre la fede cristiana ad una etichetta e non farla diventare un criterio con cui vivere TUTTA la vita. Educato e cresciuto individualisticamente, il cristiano, diventato grande in età, si chiuderebbe nella sua solitudine, come fece Romano Prodi, quando uscì con quella infelice frase circa “il cattolico adulto”, concepito come una persona totalmente isolata, dominata dalla propria autonomia.
Nel capito XVII del Vangelo di San Giovanni, Cristo, prima di andare al processo, pregò il Padre non per chiedere particolari capacità morali o organizzative per i propri discepoli, ma per chiedere per loro una sola cosa, che fossero uniti, cioè vincolati nella comunità creata dalla Sua presenza. Anche in missione non mandò i Suoi discepoli soli, ma a due a due. Da questo punto di vista, è impressionante leggere gli Atti degli Apostoli che la liturgia ambrosiana ci offre in questo periodo pasquale: essi testimoniano in modo clamoroso come, all’inizio, i cristiani vivevano tra di loro avendo tutto in comune. Senza la dimensione comunitaria, vissuta fin dall’inizio dai dodici apostoli, non vi sarebbe cristianesimo.
Come sempre, don Giussani spiega fino in fondo le ragioni complessive dell’esperienza comunitaria, in modo da togliere ogni ambiguità e da prevenire ogni possibile errore. Così, scrive che la comunità richiede “l’adesione personale”:

«Così sorge la comunità, come continuo risultato di questa mia iniziativa di accettazione, di questo instancabile impegno verso la presenza degli altri… la comunità quindi è ben lungi dall’essere limite alla personalità».

E poi, ancora, parla di “funzionalità”, nel senso che

«la vita esprime questa sua unità attraverso rilevabili differenziazioni, attraverso distinzioni inconfondibili: si chiamano funzioni… la loro diversità non solo non lede l’unità, ma ne dimostra la densità e la ricchezza… ogni idea, infatti, è una vera funzione… una comunità perciò è tanto più viva, quanto i suoi membri sono capaci di compiti, di funzioni diverse e molteplici… Accettare queste diversità di compiti… misura lo spirito di comunità da cui uno è animato».

Mi sembrano parole impressionanti, che servirebbero molto agli uomini di Chiesa di oggi, che sembrano più preoccupati di definire un “linea” alla comunità cristiana piuttosto che coinvolgere tutti coloro che, anche con funzioni diverse, testimoniano la stessa fede in Cristo. La comunità cristiana, a mio pare, non deve avere una “linea”: l’unica linea possibile è quella che ha a cuore l’unità, altrimenti prevale l’esclusione.
Ancora, don Giussani, a proposito della vita comunitaria, richiama la funzione essenziale dell’autorità, chiamata a favorire l’unità, come punto da seguire, con la libertà dei figli di Dio: «Bisogna rendere presenti se stessi all’autorità: offrirsi cioè ad essa, attivamente, in un dialogo instancabile di collaborazione».
Infine, don Giussani richiama, molto cattolicamente, l’esigenza che l’unità sia sensibilmente visibile.

«La forza dell’unità è l’indice della potenza di una vita… non esiste vero senso dell’universale se non è passione dell’unità… l’espressione matura del condividere cristiano è perciò l’unità fin nel sensibile e nel visibile».

Caro direttore, queste pagine di don Giussani mi sembrano veramente eccezionali e poiché erano rivolte soprattutto al richiamo cristiano verso i giovani, spero che gli “esperti” che andranno al prossimo Sinodo abbiano l’umiltà di tenerne conto. Ma esse costituiscono anche un un insegnamento utile per l’intera Chiesa. Mi spiego. Quand’ero giovane e oramai lontano dalla Chiesa, le parole delle autorità cristiane, dando per scontato Cristo, erano piene solo di richiami a regole e regolette e ciò allontanava soprattutto i giovani. Don Giussani rivoluzionò questo approccio ricominciando ad annunciare Cristo, aiutato in questo dal successivo papato di San Giovanni Paolo II: ora si sente più spesso, nelle omelie, parlare di Cristo e questo è un importante passo avanti. Il guaio è che ora non si sente quasi mai (forse mai) parlare di Chiesa, che è il luogo in cui, ordinariamente, si incontra Gesù. E così Cristo rischia di rimanere una ipotesi di vita astratta, disincarnata, facile preda di “visionari”. Il richiamo di don Giussani alla dimensione comunitaria mi sembra, quindi, essenziale, perché proprio Cristo ha lasciato la Sua presenza alla presenza storica della Chiesa. Sembra quasi che molti pastori abbiano vergogna di affermare questa semplice e cattolica verità. Malgrado i suoi difetti umani, la Chiesa (cioè la comunità dei cristiani) rimane Santa, perché in essa permane per sempre la presenza concreta e viva di Cristo.

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