
«In carcere contro l’aborto: l’amore di Dio mi chiama ad amare il nascituro oggi, come non ci fosse domani»
In carcere dal 7 agosto per aver disobbedito al divieto di parlare con le donne che si recano nelle cliniche abortive, Linda Gibbons, in attesa di essere processata il prossimo 12 novembre, ha scritto una lettera sul perché preferisce rimanere in prigione piuttosto che piegarsi a una legge che ha sempre definito «contraria all’uomo e a Dio». In carcere con lei Mary Wagner, visitata da Oswald Gracias, arcivescovo di Bombay e presidente della Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia, che, incontrandola, disse: «Papa Francesco è chiaro sulla necessità di dare testimonianza al Vangelo, nonostante le difficoltà. Sono profondamente convinto che si deve fare quello che si ritiene giusto. Seguire il Vangelo nella buona e nella cattiva sorte, qualunque siano le difficoltà (…). Non si tratta di un esercizio futile per combattere contro i mulini a vento. Anche se la gente potrebbe dubitare dell’efficacia di questa scelta».
Di seguito riportiamo una nostra traduzione della lettera.
Questo articolo è una riflessione sui miei dieci anni di testimonianza per la vita di fronte a diversi abortifici di Toronto. Non è mia intenzione fare un apologia della ragione, causa o scopo per cui ho scelto la disobbedienza civile contro le intimazioni in atto in queste fabbriche della morte; ho scritto di questo in precedenza. La mia presenza è più che una sfida alle leggi ingiuste. La mia presenza è una risposta a un grido umano preciso: il grido dei nascituri abortiti del Canada. I tribunali non hanno risposto a quel grido silenzioso. E attualmente l’uccisione di un bambino su quattro non accenna a diminuire. La maggioranza dei parlamentari canadesi non ha versato lacrime sulla vite perse all’aborto. Al contrario, hanno inequivocabilmente condonato l’uccisione, costringendo una popolazione tranquillizzata a pagare per questo. Quando il messaggio sociale relativo alle gravidanze indesiderate o complicate è «riprova la prossima volta» o «meglio morto», non si tratta di una dichiarazione propria della condizione umana, ma piuttosto di un condizionamento culturale che implica che alcune vite sono indegne di essere vissute. Una domanda si pone: quanto vale una vita? Così le vite dei non nati diventano mercificate e messe su una scala di valori; i crimini deliberati contro i figli del Canada vengono ignorati.
Quando dunque dovrebbe arrivare una risposta umana a questi attacchi insensati contro i bambini nel grembo materno? In sostanza, la risposta per me è semplicemente che devo esserci come un essere umano che riconosce la vita di un altro in pericolo e agire in sua difesa. La mia presenza è un appello per ogni bambino in pericolo di essere ucciso e gli opuscoli che porto con me danno testimonianza della prova incontrovertibile circa la primissima esistenza di un bambino, prova negata all’interno della fabbrica. La mia presenza serve a implorare i vivi e a pregare per coloro che muoiono. Sono il testimone di un olocausto: vis a vis con oltre quattro decenni di spargimenti di sangue. Dato lo status quo dell’aborto su richiesta, senza alcun vincolo legale durante tutta la gestazione fino al parto, qualcuno potrebbe mettere in discussione l’insistenza sul fatto che la vita è un dono sacro dal concepimento fino alla morte naturale e un diritto dato da Dio degno di essere difeso.
Le mie azioni dimostrano pubblicamente il mio impegno per resistere alla campagna di disinformazione degli abortifici e per dissuadere le donne ad entrare nel centro di sterminio. Per i cristiani, l’incapacità di resistere alla pratica dell’aborto è una parodia della propria fede. Un marciapiede vuoto davanti ai centri della morte e il silenzio dai pulpiti è scandaloso, quando saremmo chiamati a far nascere quelli che sono trascinati alla morte e coloro che sono pronti per essere uccisi. Non agire contraddice la volontà di Dio e la sua intenzione per la vita. Davanti alle fabbriche abortive che feriscono la terra da una costa all’altra e un conteggio di morti milionario è richiesto un serio esame del cuore. Ho fatto tutto quello che potevo di fronte a una tale carneficina umana? Dovrebbero le cure e gli impegni verso la famiglia trattenermi? Qual è il prezzo di amare i bambini di Dio non ancora nati e di non abbandonare la lotta? Ho vagliato tutto questo. Se il costo di amare e rimanere con la mia famiglia è il prezzo del sangue dei non nati, allora il “costo della vita” insieme alla famiglia diventa troppo alto. A che ora, quindi, posso dimettermi dal compito di difendere la vita?
Immaginate per un momento, nel nostro mondo afflitto da disordini politici, il nemico avanzare verso le nostre città e portarci via i nostri figli (come sta accadendo in Iraq e Siria). Potremmo chiedere soccorso a Dio per noi se siamo stati così riluttanti nel far nascere i Suoi bambini dal grembo minacciato di morte? Quando le preoccupazioni del mondo distraggono e disturbano, mi tornano alla mente le parole del saggio Talmudico che Elie Wiesel, un sopravvissuto all’olocausto, ha citato nel suo libro, “Open Heart”: «Spetta a te amare come se dovessi morire il giorno dopo». L’amore di Dio mi costringe ad amare il nascituro come se non ci fosse un domani. Ho solo oggi e in esso sono chiamata secondo il Suo disegno a rispondere al lungo e interminabile grido per la vita.
Rimango presente nel loro servizio.
Nel Signore, datore della vita,
Linda
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