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Il punto non è Fiat a Detroit ma portare Volkswagen in Italia

Un osservatore che conosca il mercato dell’auto avrebbe chiesto più di un anno fa a Marchionne: lei come fa a credere ancora di moltiplicare per quattro la produzione in Italia entro il 2014?

Oscar Giannino
20/09/2012 - 8:33
Economia
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La riesplosione del caso Fiat a me pare singolarmente patetica. Nell’ottobre 2011 e nella primavera 2012, personalmente ho realizzato due puntate della Versione di Oscar su Radio24 chiedendo ai miei ospiti di indicare quali tra i cinque stabilimenti italiani Fiat a loro giudizio sarebbero stati dismessi, poiché le parole di Marchionne con grande chiarezza indicavano il calcolo esplicito che almeno uno se non due fossero ormai di troppo. Ma il copione che si è continuato a recitare è stato un altro, lo stesso a cui abbiamo assistito nello scontro sulle relazioni industriali, con Cisl, Uil e centrodestra vicini all’azienda, che aveva ottenuto al prezzo di durissime polemiche un’intesa di produttività sostitutiva del contratto nazionale. Anche a costo di uscire da Confindustria. Dall’altra parte, ad attaccare a testa bassa stavano coloro che nel no all’intesa avevano giocato tutto, cioè la Fiom e la sinistra antagonista.

Ridurre il caso Fiat allo scontro sull’intesa aziendale si è rivelata però una colossale cortina fumogena. Che ha finito per avviluppare politica e sindacati, rendendoli schiavi dei sì e dei no che su quell’intesa avevano pronunciato, e giocoforza meno attenti alla semplice e trasparente vicenda industriale. Non so se Marchionne abbia volutamente impostato la battaglia sulla produttività al fine di rendere meno perspicua la sempre maggior debolezza di Fiat in Italia. C’è chi pensa di sì, la mia esperienza mi fa propendere per il no. Per esempio l’uscita da Confindustria non è stata studiata a tavolino. Tecnicamente, era infondata. La Fiat ha sbattuto la porta di una Confindustria che ha fatto dei contratti nazionali derogati e dei contratti aziendali sostitutivi una duplice modalità di relazione industriale a fianco del contratto nazionale di categoria, in precedenza l’unico modello. E lo ha fatto prima e a prescindere dal caso Fiat. Firmando le intese senza Cgil, poi aspettando che anche la Cgil, l’anno successivo, maturasse il suo sì. È stato allora che Fiat è scattata: ma come, reimbarcate la Cgil mentre la Fiom a noi fa la guerra? Sabotaggio! La Marcegaglia è amica dei comunisti, strillarono il Pdl, Libero e il Giornale. Solenni fesserie, che spiegano poi perché il Pdl, che oggi rimprovera il governo, sia stato il primo a restare prigioniero della scelta iperideologica con cui ha sempre giocato questa partita. Qualunque osservatore che conosca l’andamento dell’auto nel mondo avrebbe chiesto più di un anno fa a Marchionne: lei come fa a credere ancora di moltiplicare come ha promesso per più di quattro volte la produzione di auto in Italia entro il 2014? A un giornalista, Marchionne rispose infatti che non ci credeva più. Tanto meno può crederci oggi, col mercato dell’auto europeo che nel 2012 resterà di 2,5 milioni sotto quello del 2007, e con le vendite in Italia tornate ad agosto ai livelli di 40 anni fa.

La vicenda mi sembra riproporre l’inadeguatezza complessiva delle nostre classi dirigenti. Imprenditoriali, sindacali e politiche. Imprenditoriali, perché su Fiat l’impresa italiana si è divisa un anno fa, e adesso Della Valle e Romiti (che addirittura sostiene la Fiom!) rilanciano la divisione. Chiunque attacchi la libertà dell’impresa di allocare la produzione dove convenga indebolisce la battaglia comune per un’Italia più produttiva. Sindacali, perché un conto era dividersi tra chi – con responsabilità e coraggio – ha scelto la produttività confutando l’accusa Fiom di attentato ai diritti, e chi invece su questo ha fatto battaglia politica. Ma altro conto, a maggior ragione avendo votato sì, era il dovere di incalzare l’azienda sul fatto che i suoi sviluppi americani e i dati del mercato euro-italiano rendevano Fabbrica Italia sempre più una chimera. Quanto alla politica, per un secolo ha sussidiato l’azienda torinese, per poi negli ultimi anni non porsi mai il problema di fondo: come attirare in Italia altri produttori a cominciare da Volkswagen? Invece continua a rivolgersi alla Fiat dicendo mafiosamente: l’Italia ti ha dato molto, ergo non sei libera di fare quel che vuoi. Fortuna che, con Marchionne, questo discorso non attacca.

Due volte Marchionne ha salvato Fiat dal fallimento in Italia. È meglio una Fiat per la prima volta saldamente in America, oltre che in Polonia e Brasile e Serbia, perché solo così avrà chance di produrre anche in Russia, India e Cina, senza di che la sua partita è comunque al ribasso tra i big player. Ma porsi il problema di un automotive italiano di eccellenza, che senza Fiat vale ancora 42 miliardi, quello sì che è un problema politico. È aperto da anni, ma la politica di destra e dei tecnici ha finto di non vederlo. La soluzione non è mettere soldi pubblici, all’americana o alla francese o alla tedesca. Ma attirare direttamente i tedeschi a casa nostra. Scommetto che non avverrà. Già si pensa a nuovi incentivi, dimenticando che saranno i concorrenti di Fiat a beneficiarne. E poi mi chiedono perché ho lanciato il movimento Fermareildeclino!

Tags: cgilfiatfiommarcegagliamarchionneoscar gianninoPDLSilvio Berlusconi
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