

È vero, «le parole sono importanti», come ammoniva Nanni Moretti trent’anni fa in Palombella Rossa. Anche la Treccani, nel corso degli anni ha voluto sottolinearlo. «Chi parla male, pensa male e vive male». A sinistra, ben prima che Giorgia Meloni diventasse “Il Presidente del Consiglio”, così come ha deciso di esplicitare il suo ruolo, dibattiti e sottolineature hanno affollato le assemblee dei “progressisti”, per non parlare del “campo largo” del variegato mondo femminista.
Eppure, tutto quel discutere, dotto d’intelletto e di poesia, si è scontrato con la realtà della lingua popolare, dei dialetti maschili e delle finezze al momento del voto. E cosa mai dovrà capitare affinché la bella cultura s’incontri con la vita reale delle persone? Scriveva Gramsci che «non si fa politica-storia senza una connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione. In assenza di tale nesso i rapporti dell’intellettuale col popolo-nazione sono o si riducono a rapporti di ordine puramente burocratico, formale; gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio».
Cosa dovrà ancora capitare affinché si scenda dallo scranno del Sapere per addentrarsi finalmente dentro i passi reali di quegli uomini e di quelle donne che hanno abbandonato da tempo il “sacrario” delle Case del Popolo, ed oggi votano “Il Presidente Meloni” perché ne hanno le tasche piene dei sofismi da fighette sul sesso degli angeli. Care compagne, mentre voi vi scagliate sul primato della lingua, sui pericolosi arretramenti lessicali, qui le persone che vivono il mondo combattono con il caro bollette, sino a sperare paradossalmente che il cambiamento climatico (emergenza nelle emergenze) consenta un inverno temperato. Per fortuna l’Accademia della Crusca è intervenuta in maniera categorica: la Meloni si può far chiamare come vuole. «E a culo tutto il resto», come chiosava un tempo Francesco Guccini.
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