"Il più" di Alfie Evans

Di Mauro Grimoldi
08 Maggio 2018
A che valgono quelle vite “futili” che dolorosamente e misteriosamente vivono tra noi pochi secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni?


[cham_inread]
La vicenda dolorosa del bambino Alfie Evans, dei suoi genitori, di tutta la sua famiglia e dei suoi amici si inscrive in un tempo di ostilità nei confronti della vita, in particolare dei bambini, che imprime uno stigma funesto al mondo che ci è prossimo e di cui siamo parte: il “gelo” demografico, il tabù che accompagna, negandola, ogni discussione in tema di aborto, l’estinzione prenatale dei bambini affetti da sindrome di down o da qualsiasi supposta patologia, anche lieve e, da ultimo, quello che Roberto Colombo ha definito, riferendosi proprio ai fatti di Liverpool, come “accanimento tanatologico”, mortifero.
Torna in mente il celebre verso di Holderlin: «Il più lo può la nascita ed il raggio di luce che al neonato va incontro».
Cosa è mai questo “di più” che la nascita ha potere di introdurre nel mondo? E non solo la nascita, ma anche la sua accoglienza, quel raggio di lui che al neonato va incontro?
Senz’altro la vita di chi nasce. Quello che è e potrebbe diventare, se fosse, questa nascita, attesa, accolta, favorita, ospitata.

Venne al mondo orribilmente deforme. Fu soprannominato “II rattrappito”, tanto era storto e contratto: non poteva star dritto, tanto meno camminare; stentava persino a star seduto nella sedia che era stata fatta appositamente per lui; le sue dita stesse erano troppo deboli e rattratte per scrivere; le labbra e il palato erano deformati al punto che le sue parole uscivano stentate e difficili a intendersi […] Aggiungerò che i competenti di novecento anni fa lo dichiararono anche “deficiente”.

È la descrizione molto realistica che Cyril Martindale, nel suo libro dedicato ai Santi, fa di Ermanno lo storpio, venuto al mondo a Reichenau, in una numerosa famiglia che lo affidò a una comunità di monaci dove divenne monaco lui stesso. Quest’uomo, «che neppure per un solo istante, durante tutta la sua vita, può essersi sentito “comodo” o, per lo meno, liberato da ogni dolore», la “meraviglia del suo tempo” scrissero di lui, fu musicista, scienziato, storico, costruì orologi e strumenti musicali, compose l’Alma redemptoris e la Salve Regina.
Saremmo stati tutti più poveri senza di lui. E senza Gianluca Spaziani, lo studente down laureatosi due anni fa a Palermo con una tesi sulla Medea di Pasolini, senza Giulia Sauro, la ragazza palermitana laureatasi qualche giorno fa con una tesi sulla Rivoluzione francese. O senza la piccola Chiara, la più grande Agnese e tutta la schiera di uomini e donne, bambini e bambine che semplicemente vivono e portano dentro i tanti o i pochi che hanno il privilegio di accostarsi loro tutta la grandezza della loro concreta umanità.
Vale lo stesso per quelle vite “futili” che dolorosamente e misteriosamente vivono tra noi pochi secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni?
Per esempio, la piccola Françoise, figlia del filosofo Emmanuel Mounier e di sua moglie Paulette, che nata, se ricordo bene, nel 1938 entrò nei primissimi anni della sua vita in una sorta di coma vegetativo per una grave forma di encefalite progressiva da cui non si risvegliò più, fino alla morte, avvenuta verso la metà degli anni 50.

Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, in po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo prevedente, si rivela come una nuova richiesta d’amore?

E ancora:

Ho avuto la sensazione, avvicinandomi al suo piccolo letto senza voce, di avvicinarmi ad un altare, a qualche luogo sacro dove Dio parlava attraverso un segno. Ho avvertito una tristezza che mi toccava profondamente, ma leggera e come trasfigurata. E intorno ad essa mi sono posto, non ho altra parola, in adorazione. Certamente non ho mai conosciuto così intensamente lo stato di preghiera come quando la mia mano parlava a quella fronte che non rispondeva, come quando i miei occhi hanno osato rivolgersi a quello sguardo assente, che volgeva lontano, lontano dietro di me, una specie di cenno simile allo sguardo, che vedeva meglio del mio sguardo. Se è vero che ogni autentica preghiera si fonda sulla morte delle potenze sensibili, intellettuali, volontarie, se la sottile punta dell’anima di un bambino battezzato, come ha scritto non so più quale grande autore spirituale, è messa immediatamente a contatto diretto con la vita divina, quali splendori si nascondono allora in questo piccolo essere che non sa dire nulla agli uomini? Per molti mesi, avevamo augurato a Françoise di morire, se doveva rimanere così com’era. Non è sentimentalismo borghese? Che significa per lei essere disgraziata? Chi può dire che essa lo sia? Chi sa se non ci è domandato di custodire e di adorare un’ostia in mezzo a noi, senza dimenticare la presenza divina sotto una povera materia cieca? Mia piccola Françoise, tu sei per me l’immagine della fede. Quaggiù, la conoscerete in enigma e come in uno specchio. In questa storia, la nostra disgrazia ha assunto un’aria di evidenza, di familiarità rassicurante, o, piuttosto, non è la parola giusta, impegnata: un richiamo che non dipende più dalla fatalità.
La guerra è scoppiata, tanto da coinvolgerla nella grande miseria comune. Così immerso, il peso è divenuto più lieve. La guerra ha offerto a Paulette i momenti più atroci della solitudine e dell’angoscia in settembre, in aprile. Ma, nonostante questi momenti, essa ha finito per guarirci dalla malattia di Françoise. Quanti innocenti straziati, quanti innocenti calpestati! Questa piccola bambina immolata giorno per giorno è stata forse la nostra vera presenza nell’orrore dei tempi. Non si può soltanto scrivere libri. Bisogna pure che la vita si stacchi ogni tanto dall’impostura del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui.

Augurare la morte, provocarla, anche con mezzi legali, non è sentimentalismo borghese, la materia prima di cui sono fatte e si nutrono gli incubi tangibili che seminano barbarie e disumanità nell’arduo e rischioso terreno della storia?

Bisogna pure che la vita si stacchi ogni tanto dall’impostura del pensiero, del pensiero che vive sulle azioni e i meriti altrui.

Se non altro per ammettere i nostri limiti, le nostre incapacità e accettare l’aiuto di chi è disposto a offrirci sostegno e soccorso.
Non posso, in questi giorni, fare a meno di pensare che il primo atto di odio a Cristo si è consumato sulla pelle dei bambini, con la strage degli innocenti.

Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza, ha detto di sé stesso Gesù.

“Il più” di cui dice Holderlin è questo: avere la vita e averla in abbondanza, cioè viverla secondo tutta la ricchezza di significato che essa contiene.
Questo porta la nascita; questo toglie la sua negazione.

Assistiamo anche alla diffusione di una mentalità di lotta contro la vita – un atteggiamento di ostilità vero la vita nel seno materno e verso la vita nelle sue ultime fasi. È nel momento in cui la scienza e la medicina riescono ad avere una maggiore capacità di vegliare sulla salute e sulla vita, che, per l’appunto, le minacce contro la vita si fanno più insidiose. L’aborto e l’eutanasia– omicidio vero e proprio di un autentico essere umano – vengono rivendicati come dei “diritti” e delle soluzioni a dei “problemi”, problemi individuali o problemi della società. La strage degli innocenti non è un atto meno peccaminoso o meno distruttivo solo perché viene compiuto in modo legale o scientifico. Nelle metropoli moderne, la vita – primo dono di Dio e diritto fondamentale di ogni individuo, base di tutti gli altri diritti – è spesso trattata tutt’al più come una merce da organizzare, da commercializzare e da manipolare a proprio piacimento.

Sono le parole che Giovanni Paolo II rivolgeva ai giovani riuniti a Denver nel 1993; esse sono riecheggiate nei giorni scorsi nelle parole di papa Francesco: «l’unico padrone della vita, dall’inizio alla fine naturale, è Dio! E il nostro dovere è fare di tutto per custodire la vita».
Qualcuno ha paragonato la lotta coraggiosa dei coniugi Evans alla lotta che Dio sostiene per difendere i suoi figli, cioè ciascuno di noi.
Conviene considerare molto bene questa difesa di noi stessi contro l’irrazionalità di una ostilità alla vita che è ostilità a noi stessi, prima di liquidarla come uno scrupolo metafisico. Conviene davvero, se non altro per un atto di lealtà verso la ragione e l’esperienza.
[cham_inread]

Articoli correlati

1 commento

I commenti sono chiusi.