Il Deserto dei Tartari
Il noi senza l’io e l’io senza il noi
L’intervento del card. Matteo Zuppi al Giffoni Film Festival è finito sui giornali per le parole del presidente della Cei sulle “famiglie queer” e per la malevola interpretazione che alcuni media (primo fra tutti Il Fatto Quotidiano magazine) hanno voluto dare alla sua risposta interlocutoria ad una domanda del pubblico su un eventuale presunto coinvolgimento diretto del Vaticano nella vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi.
Sarebbe stato più interessante, anche se molto meno sensazionalistico, tentare approfondimenti su una sua affermazione che esprime una visione che da tempo va esponendo e che ha avuto la sua massima traduzione pubblica nella Settimana sociale dei cattolici a Trieste che aveva come tema “Non c’è democrazia senza partecipazione”. La frase è: «Qui c’è tanto noi, l’io senza il noi diventa pericoloso».
Prima l’io o prima il noi?
Anche il noi senza l’io è pericoloso (e Zuppi in altra sede non ha mancato di riconoscerlo, alludendo naturalmente ai sistemi politici totalitari), ma ancora più pericoloso è fare confusione o perdere l’orientamento rispetto a ciò che dà il diritto di prendere la parola a nome di un “noi”, su chi/cosa costituisce un noi, e più di tutto sulla gerarchia delle realtà: viene prima il noi o viene prima l’io?
Per la cultura africana tradizionale, da cui deriva la cosiddetta filosofia ubuntu propria dell’area linguistica bantu, non ci sono dubbi: il noi viene prima dell’io. Recita il primo comandamento dell’ubuntu: «Io sono perché noi siamo, ed è perché noi siamo che io sono». Anche nel cristianesimo il noi viene prima dell’io, perché il “noi” prodotto dal sacrificio redentore di Cristo ridefinisce completamente l’io, gli dà un orizzonte completamente nuovo («Se uno è in Cristo, è una creatura nuova», 2Corinzi 5,17) che è inseparabile dall’appartenenza a un noi comunionale («Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù», Galati 3,28).
La differenza fra il noi delle culture tradizionali come quella africana e il noi del cristianesimo sta nella loro rispettiva origine: quella della filosofia ubuntu è la consanguineità, l’appartenenza a uno stesso clan e la discendenza da comuni antenati; quella cristiana consiste nell’azione miracolosa di un Altro, consiste in una grazia soprannaturale che compagina ciò che era scompaginato.
A nome di chi parla?
Il problema sorge quando si passa dalla dimensione ontologica a quella fenomenologica, o per dirla in parole semplici dalle affermazioni verbali alla realtà fattuale. Quando oggi la presidente del Consiglio utilizza il pronome “noi” per parlare non del suo governo o del suo partito, ma di tutti i cittadini, della “nazione” secondo il suo lessico preferito, certamente una quota di italiani reagirà negativamente, rivendicando un’estraneità nei confronti di Giorgia Meloni; la stessa cosa succede per un’altra quota di italiani quando a pronunciare un discorso centrato sul “noi” è la leader del principale partito di opposizione (quando dice, e lo fa spesso, “l’Italia” è come se dicesse “noi”): molti non desiderano affatto essere accomunati a Elly Schlein.
Il “noi” pronunciato da queste due figure è avvertito da una parte della società come una violenza, anche se il sistema politico italiano non è totalitario. E lo stesso accade in ambito religioso: quante divisioni si toccano con mano all’interno del cristianesimo, della Chiesa cattolica, fra i vescovi, fra i vescovi e i fedeli, dentro alle associazioni e ai movimenti ecclesiali? Quanti, nel corso della storia, si sono sentiti e quanti ancora oggi nel presente si sentono violentati nella loro coscienza di fede dalla parola di un’autorità religiosa che parla come loro leader, rappresentante, portavoce, ma nella cui cui guida non si riconoscono, in tutto o in parte? Il noi della comune italianità o della comune fede cristiana si sfrangia in umanissime divisioni a volte molte dolorose, astiose, sprezzanti.
La storia siamo noi
Gli storicisti credono di risolvere il problema invitando tutti ad alzare lo sguardo dalle proprie personali ferite e dai personalistici dissidi per riconoscersi in un orizzonte più vasto: una pubblicità televisiva di Enel ha fatto tornare di moda una canzone di Francesco De Gregori: “La storia (siamo noi)”. Canzone dal testo ambiguo, anzi contraddittorio, che oscilla fra un’ingenua idea prometeica secondo cui la storia è una creazione degli esseri umani, tutti insieme nei momenti decisivi, (quindi “siamo noi la storia”) e una visione più hegeliana della storia come opera dello Spirito del mondo, che crea e dirige il “noi” che fa la storia (dunque piuttosto “La Storia è noi”).
«La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,/ siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto/ da perdere./ E poi la gente, (perché è la gente che fa la storia)/ quando si tratta di scegliere e di andare,/ te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,/ che sanno benissimo cosa fare», canta infatti l’autore di Rimmel.
Ma prima dice:
«Però la storia non si ferma davvero davanti/ a un portone,/ la storia entra dentro le stanze, le brucia/ la storia dà torto e dà ragione».
E più sotto, a chiusura dei versi dove si afferma che a fare la storia è la gente, dichiara:
«La storia dà i brividi/ perché nessuno la può fermare».
Domina il caso
In questi due ultimi casi i brividi non sono più di commozione per la bella canzone, ma di paura davanti a un’entità contro la quale nulla possiamo, a un fato amorale che decide vincitori e sconfitti: la storia dà ragione ai turchi sterminatori e torto agli armeni sterminati, ragione ai coloni europei del Nordamerica e torto ai nativi americani, ragione ai colonialisti tedeschi e torto ai nama e agli herero decimati in Namibia, ragione ai cinesi e torto ai tibetani, ecc.
E mentre la componente hegeliana della canzone (tutto ciò che è reale è razionale, anche quando coincide con l’estinzione di un’etnia per mano di un’altra, di una classe sociale per mano di un governo rivoluzionario) provoca ribellione morale, quella umanistica secondo cui la storia è il prodotto di iniziative e progetti umani è semplicemente sbagliata: la storia spesso è determinata dal caso, dall’accadere di eventi imprevedibili, dalle conseguenze di falliti progetti umani.
Adolf Hitler è sfuggito a una mezza dozzina di attentati per mano tedesca, è scampato unico sopravvissuto della sua baracca a un bombardamento della Prima Guerra mondiale; Kokura era il bersaglio della seconda bomba atomica, ma a causa delle condizioni atmosferiche il volo mortale deviò su Nagasaki; Gavrilo Princip non era riuscito ad assassinare l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo al primo colpo, ci riuscì per caso qualche ora dopo quando la carrozza di ritorno dall’obitorio dove era stata portata la salma del cocchiere da lui ucciso nel corso del primo assalto passò casualmente davanti all’osteria dove si era nascosto dopo il fallito attentato.
Cantano felici i marinai
Ci fu un cantautore italiano che decise di replicare al cantautore romano con una canzone dedicata esplicitamente a lui e intitolata “La nave”: si chiamava Claudio Chieffo, forlivese, ciellino.
Cominciava così:
«La Storia, amico mio, è Chi ha inventato il gioco,/ il primo cerchio di luce che ha disegnato il giorno,/ è una nave che parte e se ne va/ e l’aspettano tutti dove arriva».
E finiva così:
«E cantano felici i marinai/ ad ogni porto dove c’è chi sale,/ venite, su, venite sulla nave:/ guarda com’è sicuro il Capitano…/ La Storia, amico mio, è questo lungo viaggio,/ attraversato dal sole nelle giornate tristi,/ questa nave che parte e se ne va/ e l’aspettano tutti dove arriva».
La riaffermazione del senso provvidenziale della storia e del ruolo che in essa è affidato alla Chiesa.
Qui c’è tanto noi
Concludendo: se la storia umana come tale non è adeguata a far nascere un “noi” che non sia tendenzialmente immorale o che non si creda padrone dell’essere che in realtà lo precede e lo contiene, se l’unità prodotto del sangue tramandato dagli avi o del sangue versato dal Figlio di Dio non si traduce nei fatti, storicamente ed esistenzialmente, in unità dei credenti e tanto meno in unità di tutto il genere umano, se le autorità civili o ecclesiali che pronunciano un “noi” vengono respinte da una metà o più di coloro ai quali si rivolgono, cosa resta da fare?
Un’indicazione molto bella emerge da un libro a tre firme che si intitola Generare tracce nella storia del mondo (le firme sono Luigi Giussani, Stefano Alberto, Javier Prades):
«Scrive san Gregorio di Nissa: “Fra tutte le parole totalizzanti che Cristo rivolge al Padre ce n’è una che è la maggiore di tutte e tutte le riassume. Ed è quella per cui Cristo ammonisce i suoi a trovarsi sempre uniti nelle soluzioni delle questioni e delle valutazioni circa il bene da fare”. Il fenomeno che più dimostra la potenza divina è proprio l’unità di coloro che Lo riconoscono. Nel modo nuovo di guardare all’altro, di atteggiarsi gli uni verso gli altri, si dimostra, in modo persuasivo per la ragione, la Sua presenza. Nel cambiamento del modo con cui guardo l’altro, con cui gli dico “tu”, è abolita l’estraneità, tutto freme verso l’unità. (…) La cosa più grande che si possa vedere nel mondo è che certi uomini siano uniti tra loro come membra di un unico Corpo. Non perché impegnati in una certa opera, ma perché chiamati dallo stesso gesto di Cristo, da un identico avvenimento, così che, pur non conoscendosi minimamente, fino a quel momento del tutto estranei, sono e si riconoscono legati gli uni agli altri in modo imparagonabile». (pp. 49-50)
Se il miracolo dell’unità fra i credenti prodotto dell’avvenimento Cristo non spinge i miracolati a dare spessore esistenziale alla loro comunione, a sceglierla con la loro libertà, a incrementarla con una vita che la afferma realmente e storicamente, non ci sarà nessun “noi” genuino e il relativo senso di appartenenza né fra i credenti, né fra i credenti e il resto della società in cui vivono. L’unità deve essere riconoscibile da chiunque guarda. Il quale deve poter dire seriamente: «Qui c’è tanto noi».
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