Il nano e il mare

Di Luigi Amicone
27 Febbraio 2003
Cos’è il villaggio globale se non il palcoscenico planetario di un castello rinascimentale, con i suoi prìncipi, intrighi, amanti, cortigiani, intellettuali, guerre? Tra un count down (per Saddam) e un Decamerone (fuori Porta a Porta), ecco il briefing (per la sceneggiatura di un film Fandango? fiction Rai? petit frére Mediaset?) di un nano uscito dalla fantasia di uno scrittore (quasi) lappone. E altri spunti per nuotare nell’epoca della 1441.

Questa è la storia di uno di noi, anche lui nato fuori città, in un castello, dove la gente, racconta un antico e strano romanzo di Pär Lagerkvist, fa da cornice al mondo visto da un servo di Palazzo. Siamo in una signoria rinascimentale. Il Principe è avvezzo ai sollazzi, intrighi, scaramucce e guerre dell’epoca. Machiavellici per definizione. Quando manca la guerra, arriva la peste e, sia pur distrattamente, la scena si riempie di popolo che muore ammassato nei vicoli e sotto le mura del castello. In mezzo alla confusione generale, c’è anche il caso della principessa triste, chiusa nelle sue stanze, in corsa verso la disperazione più nera, e nessuno che le dica: «donna, non piangere». Una storia vista e narrata con gli occhi e i pensieri di un protagonista strano.
Il mondo visto dal basso
Il personaggio che dice “io” in questo strano racconto è infatti un nano. Fedele servitore del Principe, il nostro nano è un essere intelligentissimo, iracondo, scrutatore, curioso, per nulla faceto, dall’indole profondamente rabbiosa, sempre attento a cogliere il lato reietto, miserabile e meschino che si cela sotto le belle apparenze degli esseri umani che lo circondano. Non ha soggezione del Principe, suo signore e suo padrone, ma gli piace essere al suo servizio e, in generale, al servizio dei padroni che incutono soggezione agli altri. è il nano del Principe, e che del Principe dice: «Di tutti quelli che ho incontrato, è l’unico che io non disprezzi. è molto falso».

Lo sguardo da evitare
Il nano ha un’alta reputazione di sé e, generalmente, è sprezzante con le altre persone: «Trovo infatti il volto degli altri assolutamente insignificante». «Ho notato che a volte incuto paura. Ma è di se stessi che gli uomini hanno paura. Credono che sia io a spaventarli, e invece è il nano nascosto dentro di loro. E sono deformi senza che ne traspaia nulla». Il nano odia la principessa lasciva, odia i suoi amanti, odia i cortigiani, odia il popolino («plebaglia») e odia in generale il mondo che vede velato di un’immensa inutilità ammantata di sciocchezze e ipocrisia. Il nano detesta anche i bambini. La figlia del Principe – con cui il nano ricorda di essere stato costretto a giocare quando lei era piccina – a lui, essere dal corpo apparentemente bambino ma in realtà nato già vecchio e col volto rugoso, chiese una volta: «Come mai non ti diverti a giocare?». E il nano le rispose solo con un’occhiata gelida. Adesso, ripensandoci, commenta tra sé: «Io! Io che non provo gioia per nulla!» e ancora: «Che cos’è il gioco? Un insensato occuparsi di… niente, proprio di niente. Uno strano modo di trattare per finta le cose». La figlia del principe ha un gattino a cui è molto affezionata e che ogni sera ospita nel suo letto prima di addormentarsi. Ora, siccome i bambini pare abbiano lo stesso sguardo d’affetto sia per i cuccioli di animali sia per gli esseri umani; siccome pare che i bambini non sappiano molto distinguere tra il calore di una madre e il calore di un cane, il nano sente un profondo ribrezzo e prova una ribellione infinita quando lo sguardo affettuoso della bambina si posa su di lui come se anche lui sia un animaletto domestico. Così, una notte, mentre la bambina dorme tenendo in grembo il suo gattino, il nano le si avvicina di soppiatto e con un colpo ben assestato taglia di netto la testa al micino. Per mesi la bambina vivrà nello sconforto, il nano nella segreta soddisfazione di essersi finalmente liberato di quello sguardo.

Una vita senza senso
L’amore? Ecco cosa ne pensa il nano indagatore sulla scorta dell’esperienza che vede nella principessa («la sgualdrina») e dei suoi amanti. «L’amore è una cosa che muore. E quando muore va in putrefazione e può diventare terreno adatto per un nuovo amore. L’amore morto vive allora la sua vita segreta in quello nuovo, e così in realtà l’amore non muore. Questa, a quanto capisco, è l’esperienza che ha fatto la principessa e sulla quale fonda la sua felicità. Perché non c’è dubbio che sia felice. E diffonde felicità intorno a sé».
La fede? Ecco in cosa crede il nano: «Tutto, a suo modo, ha un significato, tutto quello che accade e di cui gli uomini si occupano. Ma la vita stessa non ha significato alcuno, né può averlo. Dunque non dovrebbe essere possibile trovarlo. Questa è la mia fede».

La sincerità di un cinico
«Noi nani non abbiamo patria né padre né madre, consentiamo di nascere da sconosciuti, da chiunque, di nascere in segreto dalla gente più miserabile, purché la nostra razza non si estingua. E quando questi genitori sconosciuti si accorgono di aver messo al mondo una creatura della nostra razza, ci vendono a principi potenti che noi dobbiamo divertire con la nostra deformità. Anch’io venni venduto così da mia madre. Ebbe in cambio venti scudi, e con quelli si comprò tre braccia di stoffa e un cane da guardia per il suo gregge. Sto seduto alla finestra dei nani e contemplo la notte, indagando in essa come fanno loro (“loro” sono «i filosofi, coloro che s’immaginano di sapere qualcosa sulle stelle e credono che esista un qualche rapporto tra esse e il destino degli uomini» e che per il nostro nano “sono dei bestemmiatori, anche se cosa bestemmino di preciso non lo so, non mi interessa”). Non ho bisogno di cannocchiali, né di telescopi, il mio sguardo è già abbastanza profondo. Anch’io leggo nel libro della notte».
(Il nano ha un grande pregio secondo chi scrive queste note: è sincero con quello che vede e, pur non pretendendo di avere un giudizio esaustivo sulle cose – si veda l’uso del condizionale in frasi tipo «dunque il significato della vita non dovrebbe essere possibile trovarlo» o del «a quanto capisco» ricorrente – non vive di sogni, idee, illusioni, utopie, bensì rileva e annota con franchezza tutto. Il nano, dunque, è un cinico, ma non per partito preso, non per filosofia, ma perché così gli dice la sua – iraconda – esperienza della realtà).

Il maestro Bernardo
Il Principe ama circondarsi di intellettuali, artisti, filosofi, scienziati e, in generale, di qualunque dotto si sia sparsa fama nella sua signoria. Il nano lo capisce e lo approva. «Vuole dare alla sua corte fama e celebrità, e vuole procurare a se stesso quanto più onore e gloria possibili». Un giorno arriva a corte una di queste celebrità. Però ha qualcosa di diverso dalle altre star. è un personaggio strano, calmo, saggio, curioso di tutto, tanto delle stelle, quanto delle interiora dei cadaveri, che disseziona e studia come le comete. Un personaggio scioccante per il nostro nano, ma di cui dice: «Però non è falso» (anche se un giorno, costretto da lui a posare nudo per un ritratto, il nano andrà su tutte le furie e proverà una ribellione furibonda: vorrebbe uccidere il suo ritrattista, perché gli sembra che abbia violato l’invalicabile, che si sia in qualche modo impossessato del suo corpo, mentre «sono solo io il padrone di me stesso»). Questo strano personaggio viene trattato dal Principe con inusuale reverenza e con lui il Principe si accompagna in lunghe e affascinanti conversazioni come tra discepolo e maestro. è il grande maestro Bernardo (un altro Leonardo da Vinci?) alla corte del Principe. Ad un certo punto, dopo la narrazione delle attitudini strabilianti di questo vero “esploratore delle viscere della natura”, una sera, racconta il nano…

L’incompiutezza dell’umano
«Ieri sera, come al solito, erano seduti a parlare dei loro abituali, elevati argomenti. Lui però era malinconico, lo si vedeva. Teneva la mano sulla lunga barba, meditabondo, carico di pensieri che non dovevano procurargli alcuna gioia. Ma era pieno di fuoco, di vera e propria passione quando parlava, anche se non era un fuoco di quelli che si vedono, ma piuttosto coperto di cenere. Era irriconoscibile, si sarebbe potuto credere che fosse un altro che stavamo ascoltando. Il pensiero umano, diceva, è in fondo capace di tanto poco. Le sue ali sono forti, ma il destino che ce le ha date è più forte di noi. Non ci permette di sfuggirgli, né di spingerci più lontano di quanto ha stabilito. La nostra strada è determinata, dopo un breve volo in cerchio che ci riempie di speranza e di gioia siamo richiamati indietro come il falcone legato alla corda del falconiere. Quando arriveremo alla libertà? Quando verrà recisa la corda, e il falcone potrà innalzarsi verso lo spazio aperto? Quando? Accadrà mai? Non è invece il segreto del nostro destino essere legati alla mano del falconiere, e rimanerlo per sempre? Se dovesse verificarsi un cambiamento nella nostra condizione noi non saremmo più uomini, e il nostro destino non sarebbe più destino umano. Eppure siamo fatti in modo da sentirci sempre attratti dallo spazio, e da credere di appartenergli. E lo spazio è sempre lì, sopra di noi, ci si apre davanti come qualcosa di assolutamente reale. È una realtà, come lo è la nostra prigionia. Perché esiste, questo spazio infinito che non possiamo mai raggiungere? Si domandava. Qual è il senso di questa sconfinata vastità intorno a noi, intorno alla vita, se noi siamo tuttavia come prigionieri impotenti, se la vita rimane per questo sempre la stessa, confinata in se stessa? A cosa servono, allora, quelle grandi dimensioni? Perché il nostro piccolo destino dev’essere circondato da tali immensità? Ci rende più felici, questo? Non sembra. Sembra piuttosto che siamo diventati ancora più infelici, disse. Io lo osservavo con attenzione, l’espressione cupa del suo volto e la strana stanchezza del vecchio sguardo. Ci rende più felici, cercare la verità? proseguì. Non lo so. La cerco e basta. Tutta la mia vita non è stata altro che un’incessante ricerca della verità, a volte ho creduto di intuirla, mi è sembrato di scorgere qualcosa del suo limpido cielo… ma il cielo non si è mai realmente aperto davanti a me, mai i miei occhi si sono inebriati del suo spazio infinito, senza il quale niente quaggiù potrà mai essere veramente capito. Non ci è consentito. Per questo, in realtà, tutti i miei sforzi sono stati vani. Per questo tutto ciò cui ho posto mano è rimasto una mezza verità, un aborto. Con dolore penso alle mie opere e con dolore e tristezza devono contemplarle tutte: come un torso. Immaturo, incompiuto è tutto ciò che ho creato. Ogni cosa che lascio dietro di me è incompiuta. Ma, c’è da stupirsene? In fondo è il destino dell’umanità. L’inevitabile destino di ogni sforzo umano, di ogni opera umana. Nient’altro che un tentativo, il tentativo di raggiungere qualcosa che mai potrà essere raggiunta, che non è fatta per poter essere raggiunta da noi. Tutta la cultura umana non è in realtà che un tentativo verso qualcosa d’irraggiungibile, qualcosa che supera di gran lunga la nostra capacità di realizzarla. E rimane lì, amputata, tragica come un torso. Non è un torso lo stesso spirito umano? A cosa servono le ali, se non potremo mai sollevarci? Diventano un fardello invece di una liberazione. Ci appesantiscono. Ce le trasciniamo dietro. Alla fine ci riescono odiose. E proviamo sollievo quando il falconiere, stanco del suo gioco crudele, ci abbassa il cappuccio sul capo, così siamo dispensati dal dover vedere. Era lì seduto abbattuto e tetro, con un tratto d’amarezza intorno alla bocca, e gli occhi gli ardevano d’un fuoco pericoloso. Io ero estremamente stupito, davvero. Era quello stesso uomo che non molto tempo prima s’era esaltato per l’infinita grandezza dell’uomo, che ne aveva proclamato l’onnipotenza, annunciando che un giorno avrebbe dominato come un sovrano incontrastato nel suo immane regno? Che l’aveva quasi dipinto come pari agli dei? Io non lo capisco. Non lo capisco per niente. E il principe stava lì, ad ascoltarlo, catturato dalle parole del suo grande maestro, benché tanto differenti da quelle precedentemente uscite dalla sua bocca. Era perfettamente d’accordo con lui. Senza dubbio un buon allievo, bisogna ammetterlo. Come fanno a conciliarsi le due cose? Come possono riunire dentro di sé tali opposti, e starsene seduti a discorrere di tutto con la stessa profonda convinzione? Per me, che sono sempre uguale a me stesso, che sono assolutamente immutabile, è incomprensibile.
Sono rimasto sveglio cercando di capirli, ma non ci sono riuscito. Non riesco a venirne a capo. Un momento non c’è che esultanza per la grandezza e lo splendore dell’essere uomo. E l’attimo dopo nient’altro che sconforto, totale insensatezza, disperazione. Ma com’è allora?»

…Ma com’è allora?
Napoli, settembre 1835, Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, di Giacomo Leopardi:
«Tal fosti: or qui sotterra
polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango
immobilmente collocato invano,
muto, mirando dell’etadi il volo,
sta, di memoria solo
e di dolor custode, il simulacro
della scorsa beltà. Quel dolce sguardo,
che tremar fe’, se, come or sembra, immoto
in altrui s’affisò; quel labbro, ond’alto
par, come d’urna piena,
traboccare il piacer; quel collo, cinto
già di desio; quell’amorosa mano,
che spesso, ove fu porta,
sentì gelida far la man che strinse;
e il seno, onde la gente
visibilmente di pallor si tinse,
furo alcun tempo: or fango
ed ossa sei: la vista
vituperosa e trista un sasso asconde.
Così riduce il fato
qual sembianza fra noi parve più viva
immagine del ciel. Misterio eterno
dell’esser nostro.
Oggi d’eccelsi, immensi
pensieri e sensi inenarrabil fonte,
beltà grandeggia, e pare,
qual splendore vibrato
da natura immortal su queste arene,
di sovrumani fati,
di fortunati regni e d’aurei mondi
segno e sicura spene
dare al mortale stato:
diman, per lieve forza,
sozzo a vedere, abominoso, abbietto
diviene quel che fu dianzi
quasi angelico aspetto,
e dalle menti insieme
quel che da lui moveva
ammirabil concetto, si dilegua.
Desiderii infiniti
e visioni altere
crea nel vago pensiere,
per natural virtù, dotto concento;
onde per mar delizioso, arcano
erra lo spirto umano,
quasi come a diporto
ardito notator per l’Oceano:
ma se un discorde accento
fere l’orecchio, in nulla
torna quel paradiso in un momento.
Natura umana, or come,
se frale in tutto e vile,
se polve ed ombra sei, tant’alto senti?
Se in parte anco gentile,
come i più degni tuoi moti e pensieri
son così di leggeri
da sì basse cagioni e desti e spenti?»

Dorma il mare…
556-467 a.C., frammento 38 P. di Simonide
(Danae è stata rinchiusa da suo padre in una cassa di legno gettata in mare insieme al figlioletto concepito da Zeus, per il timore che si avverasse un vaticinio funesto. La condizione in cui si trovano madre e figlio non lascia sperare in alcuna possibilità di salvezza….)
«Quando nell’arca finemente lavorata il soffiare del vento e l’agitarsi del mare la gettavano nel terrore, con le guance inondate di lacrime, ponendo la sua mano sopra Perseo in atto di protezione diceva: “O figlio, in quale difficoltà mi trovo; tu dormi il sonno tranquillo del bambino, adagiato in questa orribile cassa di legno dalle borchie di bronzo luccicanti nella nera notte, avvolto dall’oscurità violacea; non ti preoccupi dell’onda che sia avventa spumeggiando sopra il tuo capo, né del fragore del vento e il tuo bel viso è coperto da un drappo purpureo. Se però per te fosse terribile ciò che è terribile, tu presteresti ascolto alle mie parole. Dormi bambino, dorma il mare, dorma lo smisurato male; ma, se è possibile, un cambiamento venga da te, padre Zeus…”».

LO STRANIERO
Dal diario di Hetty Hillesum, ebrea, morta nel campo di sterminio nazista di Auschwitz nel novembre 1943, annotazione tratta da Rilke, delle nove e mezza di mattina del 24 marzo 1941: «Und horte fremd einem Fremden sagen: Ich bin dei dir». («E sentì stranamente uno straniero dire: Io sono con te»). Dal diario di Hetty Hillesum, annotazione del 23 luglio 1941, giovedì sera, le nove: «L’unico atto degno di un uomo che ci sia rimasto di questi tempi è quello d’inginocchiarci davanti a Dio».

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