Il mestiere di chi impara lavorando

Di Persico Roberto
01 Maggio 2003
Aldilà di una sinistra disinformazione e delle balle cinesi della Cgil, esiste una scuola che funziona. E' il caso del Cfp del prof. Vicini: «Il tutto si impara nel frammento»

Anche il Tar della Lombardia li ha indicati a esempio. Di che cosa? Di un nuovo modo di fare scuola, che fonda preparazione al lavoro e formazione culturale in una sintesi unitaria.
Andiamo con ordine. La Regione Lombardia e il Miur hanno firmato l’anno passato un protocollo d’intesa che prevede l’avvio di trenta corsi sperimentali. Obiettivo: verificare sul campo nuove modalità di formazione, capaci di tenere insieme in forme innovative preparazione al lavoro ed educazione globale della persona. Una sfida, basata sul principio dell’autonomia: basta con le direttive dall’alto, diamo fiducia a chi vive l’avventura educativa sul campo, vediamo cosa riescono a inventare; poi valuteremo, e indicheremo gli esiti più efficaci come esempio per tutti.
Opposizione tenace, come si è accennato, delle sinistre: legate alla falsa equazione uguali opportunità = uguali modalità, difendono il disegno berlingueriano della scuola uguale per tutti fino a quindici anni, e si battono contro il “modello lombardo”. Risultato: qualche mese fa i giornali milanesi titolano: “Il Tar boccia l’accordo Moratti-Formigoni”, dando a intendere che il tribunale amministrativo abbia accolto un ricorso della Cgil-scuola regionale contro l’intesa, annullando di fatto tutti i corsi. Balle cinesi. È vero c’è stato un ricorso della Cgil, ed è vero che è stato accolto. Ma il ricorso non riguarda l’accordo, bensì uno solo dei corsi che sulla base dell’accordo sono stati avviati, riconosciuto colpevole di proporre anziché «un percorso didattico flessibile» moduli rigidi, «all’interno dei quali incanalare differenti tipologie di studenti» in modo discriminatorio. Ma, attenzione: la sentenza aggiunge: «A termine di paragone di un progetto formativo integrato correttamente impostato» si veda «altra e diversa convenzione tra l’Istituto Superiore Statale G. B. Rubini di Romano di Lombardia e il Centro di Formazione Professionale delle Suore Passioniste di Calcio. La differenza di impostazione è radicale e immediatamente percepibile».
Tempi ha voluto conoscere questo Cfp “modello”. Ha incontrato il prof. Roberto Vicini, già insegnante al liceo classico Sarpi di Bergamo, che quest’anno ha lasciato la sua cattedra di filosofia nell’istituto più prestigioso della città attirato dalla sfida di inventare una scuola nuova per ragazzi tradizionalmente emarginati dal sistema formativo.
«La formazione professionale ha una grande tradizione educativa» ci dice «basti pensare a Don Bosco, o a personaggi come Maria Maddalena Frescobaldi, madre di cinque figli (tra cui il noto pedagogista Gino Capponi), laica fondatrice dell’ordine delle Passioniste, che ha dato vita a una grande rete di scuole professionali, tra cui quella dove lavoro: partivano dal problema concreto dei ragazzi – imparare un mestiere – per incontrare la persona nella sua globalità. Poi però i corsi di formazione si sono in gran parte ridotti a puro addestramento. Gli istituti professionali hanno tentato di risolvere il problema, ma hanno scelto una strada sbagliata, limitandosi a giustapporre alla preparazione lavorativa alcune ore teoriche del tutto sganciate dall’aspetto pratico. Noi abbiamo tentato di rovesciare il metodo, nella convinzione che, come insegnava il grande teologo Von Balthasar, “il tutto si rivela nel frammento”. In famiglia, un genitore non educa per i discorsi che fa, ma per il modo con cui insegna i gesti più semplici. Così è per tutto. Recentemente, a Santa Vittoria d’Alba ho incontrato un viticoltore che ci “spiegava” i suoi prodotti: partiva dal vino, e il discorso spaziava alla storia del territorio, alla chimica dei terreni, ai problemi del commercio, all’evoluzione del gusto… Così tentiamo di fare anche noi: iniziamo dal particolare, dal mestiere che insegniamo (noi facciamo corsi legati all’industria dell’abbigliamento), per allargare da lì l’orizzonte. I ragazzi devono imparare a confezionare un indumento? Bene, cominciamo da lì. La matematica inizia dai problemi concreti che devono risolvere per le misure degli abiti. L’economia dall’organizzazione dell’azienda che deve produrli. Il diritto dalle norme che regolano il lavoro e la commercializzazione del prodotto. L’italiano da quello che devono scrivere per descriverlo, pubblicizzarlo, commercializzarlo. L’educazione civica, l’etica dal rispetto reciproco e dalla collaborazione in fabbrica. Ma non ci fermiamo lì. Abbiamo un monte ore flessibile e diversificato nel corso dell’anno. All’inizio ci concentriamo sul laboratorio, poi allarghiamo progressivamente le due grandi aree culturale-scientifica e delle scienze umane. Suddividendo i ragazzi a seconda delle difficoltà da risolvere, o delle inclinazioni che man mano rivelano. Per esempio, abbiamo attivato un modulo di scrittura creativa, seguito da un giornalista, dove alcuni hanno dimostrato una capacità espressiva sorprendente. Non sono tutti uguali. C’è chi è più tagliato per le relazioni umane, chi per gli aspetti tecnici. Si tratta di essere realisti: partire dalle capacità di ciascuno per aprirlo alla totalità. Perché imparare a lavorare significa costruirsi un’identità, e quindi acquisire una cultura».
Se questa è l’idea, non possiamo che appoggiare la richiesta dell’assessore alla formazione della Regione Lombardia, Guglielmo, che ha chiesto con forza che non solo l’istruzione professionale, ma anche quella tecnica passi nel secondo canale, anziché confluire nei licei tecnologico e commerciale. Qui c’è lo spazio per una vera formazione umana attraverso una seria preparazione al lavoro.

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