Il Meeting ricorda Eugenio Corti: «Tutta quanta la realtà è legata al rapporto tra l’uomo e Dio»

Di Roberto Allegri
26 Agosto 2014
A Rimini viene ricordato il grande scrittore autore de "Il cavallo rosso". Qui una delle sue ultime interviste: «Uno scrittore cattolico è uno scrittore universale. È legato in tutto e per tutto alla sua fede»

eugenio-corti-copa-tempiOggi al Meeting di Rimini ci sarà un incontro sulla figura del grande scrittore Eugenio Corti, scomparso a febbraio all’età di 93 anni, e a cui Tempi dedicò una copertina. Di seguito pubblichiamo una delle sue ultime interviste, per gentile concessione dell’autore Roberto Allegri. 

Il maestro è su una sedia a rotelle e i suoi 92 anni lo rendono sottile e delicato. Gli occhi azzurri sono velati e tremanti ma a tratti lanciano bagliori d’acciaio soprattutto quando acchiappa un ricordo che sta fuggendo. Allora la sua candida barba si apre in un sorriso dolcissimo. Per l’incontro ho preparato poche domande, per non stancare il maestro. Dalle sue parole, ora lievi e deboli e ora energiche e sicure, emergono ricordi, definizioni, convinzioni e aneddoti che restano preziosi. Non delineano la sua intera esistenza, il corpo completo della sua opera, ma più che altro mettono i puntini sulle “i”, ribadiscono concetti, arricchiscono la sua figura di grande vecchio della letteratura mai sul serio riconosciuto. Mi ha ricevuto in una sala luminosa, ad un tavolo ricco di libri e fogli scritti. Corti sta lavorando, adagio e secondo i ritmi imposti dalla salute, alla revisione di un suo saggio sulla crisi post-Concilio Vaticano II. Un’ampia finestra da sul parco della villa e accanto ai vetri diverse gabbie liberano nell’aria il cinguettio dei canarini.

La definiscono uno scrittore cattolico. Ma cosa significa?
Uno scrittore cattolico è uno scrittore universale. È legato in tutto e per tutto alla sua fede. La fede per lui è non solo in ciò che sente di dover dire col proprio lavoro ma è in tutto quello che esiste. Tutta quanta la realtà è legata al rapporto tra l’uomo e Dio.

Ha quindi una grande responsabilità. 
Già il fatto che una persona si presenti come “autore” ha una grande responsabilità. Ogni uomo ha la grande responsabilità di testimoniare quello che è, quello che sente, quello che vede attorno a sé. Ciascuno è responsabile di se stesso ed è la più grande responsabilità che si possa immaginare. Ogni essere umano ha il dovere di divulgare messaggi puliti, positivi. Se poi uno è scrittore e ha credito, questa responsabilità aumenta in modo enorme.

In Italia, gli scrittori cattolici sono però un po’ messi da parte.
Lo scrittore cattolico è universale, il suo stesso nome lo dice. Katholikòs in greco significa appunta universale. Come tale, va di traverso a molti, lo considerano un disturbo nel quadro. Questo dipende dal fatto che oggi le opinioni che tengono il campo non prendono in considerazione l’intera realtà. Sono opinioni parziali. Se qualcuno si presenta invece con opinioni complete, che comprendono tutta la realtà e quindi anche Dio, non viene accolto. Però, esiste una vera e propria superiorità del punto di vista dei cattolici rispetto agli altri in quanto è più aperto sul tutto complessivo e non su qualcosa di frazionato. Il fatto è che la visione frazionata predomina e le idee allineate con questa visione vanno bene. Il resto è messo da parte. Questo solo fatto sconfessa però tali visioni come possibili giudici della realtà perché non la considerano nella sua interezza. In Italia, lo scrittore cattolico è messo da parte per lo stesso motivo per cui è messo da parte l’insegnamento di Dio: sono cose che vengono accettate solo se non urtano i non cristiani.

Chi sono per lei gli scrittori cattolici più importanti?
Difficile dirlo. Forse tutti e nessuno. Insomma, mi viene in mente Manzoni. Anche Guareschi. Mi ricordo che ero andato a trovare Guareschi quando viveva a Milano. Ricordo bene la gioia e la soddisfazione di stare insieme e parlare. Abbiamo parlato di tutto.

Lei è stato molto amico anche di don Gnocchi.
Lo conoscevo bene, si. Lui era nativo di San Colombano al Lambro ma quando aveva solo cinque anni aveva perso il padre. Con la madre allora era venuto a vivere a Montesiro, una frazione di Besana Brianza, dove era nato anche mio padre. Così don Carlo è cresciuto qui. Poi era andato in seminario e tornava in paese solo per le vacanze.

Quando lo ha incontrato per la prima volta?
Fu qui a casa nostra. Subito dopo la guerra, don Carlo veniva spesso a casa per vedere mio padre. Mio padre era un industriale tessile, aveva più di mille dipendenti. E così don Carlo veniva a chiedergli aiuti economici per le sue opere. Lui era stata cappellano negli Alpini e aveva promesso ai soldati morenti che si sarebbe occupato dei loro figli. “I miei bambini, i miei bambini” gli dicevano. E lui rispondeva: “Non pensarci. Ci penserò io!”. A guerra finita, lui si è trovato a doverci pensare veramente. Ma non era uno che parlava a vanvera. Si era impegnato e così è andato a trovare tutti i figli dei suoi soldati. Erano tutte famiglie povere che, morto il padre, non avevano la possibilità di andare avanti. Don Carlo li aiutava. Aveva sempre bisogno di soldi e così veniva a chiedere anche a mio padre che era un cristiano cattolico apostolico. Mio padre lo aiutava sempre. A quel tempo, don Carlo era già diventato un punto di riferimento. Lo conoscevo di nome ma non lo avevo mai incontrato. Lo vedevo qui a casa nostra ma allora non avevo la precisa cognizione del bene che stava compiendo. Lui mi fece cambiare idea su alcune cose.

Cosa le disse?
Avevo quasi trent’anni, avevo fatto la guerra ed ero stato sul fronte russo. Quello che avevo visto in guerra, quello che era successo aveva fatto nascere in me un senso negativo sugli uomini, sull’umanità in generale. Un giorno don Carlo mi sentì che parlavo con mio padre della Russia. “Non sono d’accordo con quanto sostieni”, mi disse. “Non va bene che tu abbia queste opinioni e questi giudizi”. Le sue parole mi fecero riflettere molto e furono l’inizio del mio ripensamento.

So che don Gnocchi ha celebrate le sue nozze nel 1951.
Proprio così. Non mi ero ancora sposato e allora don Carlo mi diceva in dialetto: “Alura, quant l’è cà ta sa spuset? Allora quando ti sposi?”. E io non sapevo che rispondere. Una volta ero in Stazione Centrale a Milano e stavo prendendo il treno per tornare a casa. Don Carlo era su un binario più in là, mi vide e si mise a gridarmi la solita frase: “Quando ti sposi?”. Quella volta però le cose erano diverse, mi ero fidanzato e avevo anche già deciso la data delle nozze e il fatto che si sarebbero celebrate ad Assisi, dato che mia moglie è di origini umbre. Così attraversai di corsa i binari, andai da don Carlo e gli dissi: “Non oso chiederle di celebrare il mio matrimonio. Ma se potesse darci una benedizione, le sarei molto riconoscente”. Lui allora tirò fuori dalla tasca un quaderno e prese nota della data. “Vengo io a sposarti ad Assisi!”, disse. Ricordo che la sera prima del matrimonio io, Vanda che era la mia futura moglie, e gli amici più intimi eravamo ad Assisi tutti insieme. All’improvviso è comparso anche don Carlo. Aveva mantenuto la parola e ci aveva raggiunti. Cenammo tutti insieme e poi andammo a passeggiare per le strade di Assisi. Era primavera, era tutto meraviglioso. Anche l’aria che si respirava era un incanto.

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