
Il Meeting dell’imprevisto
È facile raccontare un’amicizia, o è impossibile. C’è un vecchio sistema, che funziona sempre: vieni e vedi. Se ha convinto me forse commuoverà anche te. È così per tutto, non è diverso per il Meeting. Chi ha visto lo sa, e beati quelli che sapranno vedere senza aver visto. Senza credere di aver già saputo prima, senza “questo lo già sentito”, senza pensare di conoscere già perché, perché, perché… Raccontare il Meeting. Ma è più facile incontrarlo (del resto è un meeting…). Ed ecco allora si aprono gli occhi su questo strano evento: acciaio ciellino, zoccolo duro della stagione politica, portico di dialogo, bodyguard e giornalisti, formicaio famigliare, bellezza doevskjana (la migliore, quella che salva il mondo), titoli e servizi ai tg. È facile dargli del tu, perché lo conosci da 25 anni, ma ancora non lo conosci e ti stupisce, per fortuna. Ancora ti raduni con altri migliaia tra le sue braccia di cartongesso, e scarpe comode da maratoneta e golfetti per debellare i condizionatori: fare un tuffo nella rassegna delle nozze d’argento del Meeting è quest’anno un viaggio in quintali di carta stampata ben lungi dall’essere un revival di pareri o posizioni. Quest’anno è un’altra cosa raccontarsi e raccontarlo. Assente il Cavaliere e annessa bandana spaventa first lady inglese, è accaduto che il popolo di giornalisti a caccia dell’annuale identità politica ciellina per dare un senso a un soggiorno presettembrino apparentemente privo di colpi di scena rivolgesse l’attenzione un po’ meno agli equilibrismi politici e un po’ più al senso di 135 incontri, 19 mostre e 16 spettacoli. Al Meeting non ti annoi e incappi in amicizie, di quelle per sempre, il ragazzetto yankee che promette al favelado «domani mi attacco al computer e ti scrivo», o un direttore che invita la Tv araba satellitare Al Jazeera a raccontarsi in Italia.
Erano 7, sono 700mila
Al Meeting si parla di progresso, di “tendere continuamente alla meta”, a quel Dio un po’ speciale che permette l’abbraccio tra un rabbino e un musulmano; al Meeting si inizia in sette davanti a una pizza e ci si ritrova con 700mila presenze 25 anni dopo, e via vai di facce note e ignote, ma soddisfatte, addirittura felici, plausi, fischi e seggiolini e pannelli, un titolo, una foto, un nome a rapire un io un po’ bambinello-Marcellino pane e vino-occhi sgranati e curiosi e un po’ san Tommaso, l’apostolo più curioso di tutti, l’apostolo che c’è in noi, il rischio di chi non lo cerca-passa davanti-butta l’occhio-e arrivederci debellato dalla voce argentina dello studente-cicerone appassionato, un drappello di gente che, silente-in piedi-bimbi al collo-occhi alla mostra, da solo sfodera ragioni per essere imitato. Il Meeting si racconta così, nelle facce stanche ma entusiaste di 2.800 volontari con magliettone colorato di ordinanza, che negli attimi di pausa riempiono i saloni per ascoltare un missionario, un senatore o un premio Nobel, e i titoli dei giornali, e quella parola “appartenenza” che si respira nell’aria e che da sola è il segreto della comunicazione al Meeting. Vieni, vedi. E se ti commuovi ti appartiene. Appartieni.
Perché raccontare se stessi innanzi a tutta questa realtà significa entrarci dentro, significa che il palco è solo uno accorgimento estetico-organizzativo, e che tu, ospite, in realtà sei lì, tra chi ti vuole ascoltare, chi è interessato a te e riempie di dignità umana il tuo racconto. E allora la notizia è diversa, l’informazione orfana del racconto di te stesso non è completa. È sola, senza la circostanza del tuo essere al Meeting e al Meeting non si può restare da soli. Gli esempi non si contano: non è importante la dichiarazione della Mambro su piazza Fontana, ma la grande misericordia che l’ha abbracciata e innanzi alla quale riesce a raccontare la sua vita come un “grazie” quotidiano. Ed è importante Tolentino, quel poeta che anni fa era all’aeroporto in attesa di Sartre, lo stesso giorno che Sartre schifato chiese di cambiare di posto perché affianco a lui in aereo vi era un prete. Ebbene, quel prete chiamato don Giussani, lo ha voluto ad affiancare Carrón nell’incontro più bello e conclusivo del meeting. E ancora, l’appartenenza che, come scrive Giorgio Vittadini, «libera l’io in persone così diverse», dalle imprese di Michelin e Tronchetti Provera alla missione di Pigi Bernareggi, dalla conquista scientifica di Ellis e Rubbia, alle conquiste quotidiane delle Famiglie per l’Accoglienza, dalla lirica di Carreras ai canti di montagna di Gioventù Studentesca. C’è un livello di dignità umana al Meeting che accomuna tutte le cose e che soffoca diatribe e differenze per abbracciarle in un’esperienza di dialogo, non basta: di incontro, dove la diversità è una ricchezza e l’orizzonte è l’esperienza umana. Cesana guardando una ragazzina che spazzava per terra disse «questo è il Meeting», cioè un paradosso, di gente uguale ma diversa, «chi di voi si alza all’alba per pulire i cessi di casa?». E anche il Papa, quel giorno a pranzo a Castelgandolfo con i fondatori del Meeting, accusati da una commensale polacca di non trattare temi tradizionali cattolici, chinandosi verso Emilia Guarnieri sorrise: «Lasci stare, non l’ascolti, perché il Meeting è una cultura di frontiera». E forse è proprio questo il segreto del Meeting, col quale il Meeting si comunica: partire dall’immediato, dall’esperienza della famiglia e del gruppo di amici, realtà alla portata di tutti dalla quale tutti possono prendere le mosse per realizzare qualcosa di molto più grande. Una cultura di frontiera: i romani lo chiamavano limes, ed è il nostro limite. Curioso: il limite sembra essere ciò di fronte a cui ci si ferma. «È il mio limite», è la suprema scusa per non fare. Qui la frontiera, il limite è esattamente il punto dove ci si incontra. Ci si incontra ognuno nel proprio limite, sul proprio limite. E sul mio e sul tuo limite costruiamo, un Amico costruisce, un pezzo di Paradiso. Un mondo più bello. Ed è per questo che è bello raccontare il Meeting, perché le tracce di queste piccole cose gridano e sono visibili in tutto, dal concerto alla conferenza stampa, perché la modalità di “frontiera” che lega tutto è la sfida della libertà e della responsabilità di sette persone che da un sì adesso fanno notizia. E rendono stupita una settimana giornalistica presettembrina.
SORPRESE INTERNAZIONALI A GO-GO
Se è vero (ed è vero) che solo un imprevisto può salvarci, mai come quest’anno la salvezza è stata vicina per chi ha frequentato con assiduità gli incontri internazionali e di politica estera del Meeting. Li si sarebbe potuti raccogliere quasi tutti sotto un sub-titolo preso a prestito dall’Amleto di Shakespeare: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia». A partire, evidentemente, dall’imprevedibilissimo palcoscenico che ha mostrato il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom e quello palestinese Nabil Shaat a un’oceanica folla inebriata e incredula giovedì 26 agosto (proclamata “giornata del giubbotto antiproiettile”, per la contemporanea presenza al Meeting, oltre che dei due ospiti mediorientali, dei fratelli contro sudanesi Samson Lukare Kwaje esponente dei ribelli dell’Splm e Ahmed Abdelrahman Mohamed rappresentante governativo, del pm antiterrorismo Stefano Dambruoso e del direttore del Sisde Mario Mori). Chi avrebbe mai immaginato che proprio nel momento più basso della transizione aperta tredici anni fa dagli accordi di Oslo, con le forze di sicurezza di Gerusalemme impegnate ad acchiappare gli uomini bomba palestinesi, il vallo difensivo israeliano che previene sofferenze ma ne crea delle nuove condannato dalle istanze internazionali, Arafat e Abu Ala etichettati come sabotatori anziché interlocutori del processo di pace e gli estremisti di Hamas sul punto di impadronirsi dei brandelli dell’autorità palestinese a Gaza, la road map ridotta a un foglio appallottolato; chi avrebbe mai immaginato che in una congiuntura del genere israeliani e palestinesi avrebbero scelto proprio la ribalta del Meeting per far sapere al mondo che – fermi restando il cattivissimo sangue che corre fra le due parti e il principio che qualunque concessione verrà fatta solo sulla base di onerose contropartite – non sta per scoppiare un’altra guerra arabo-israeliana, ma sta per riprendere il negoziato?
La casa del dialogo
Gongolavano tutti, i capoccia dell’associazione del Meeting, e gongolava in particolare il ministro degli Esteri Franco Frattini, onesto sensale, non soltanto perché in vita sua non era mai stato oggetto di tante entusiastiche acclamazioni come giovedì scorso a Rimini, ma perché l’occasione gli permetteva di ribattezzare seduta stante il Meeting, Rimini e l’Italia tutta come un’unica “casa del dialogo”. Trattasi non di un exploit retorico, ma di un’accorta misura antiterrorismo: la teologia islamica classica distingue fra un dar al-islam, “casa dell’islam” dove il potere musulmano regna incontrastato, e il dar al-harb, la “casa della guerra” dove la norma islamica si scontra con le istituzioni degli infedeli; se l’Italia si guadagna la nomea di casa del dialogo, dove fedeli e infedeli si incontrano per regolare le loro pendenze avendo lasciato le armi fuori della porta, ognuno vede quale sarebbe il vantaggio per il bene comune.
Ma un po’ tutta la sezione internazionale del Meeting è stata sorprendente e imprevedibile. C’era Ernst Sahid Alie Surrur, primo segretario del capo dello Stato della Sierra Leone, impegnato a comunicare un’immagine un po’ diversa del suo paese: non più e non solo l’inferno dei 55mila morti e dei 7mila mutilati della guerra civile, quando i ribelli del Ruf chiedevano alle loro vittime se preferivano la “manica corta” o la “manica lunga”, cioè il taglio della mano o quello di tutto l’avambraccio, ma un paradiso vergine di incantevoli spiagge sull’oceano, di fertili terre e di ricchi giacimenti minerari che attendono profittevoli investimenti. Ma Surrur è anche il segretario cristiano di un presidente musulmano (Ahmed Tejan Kabbah). Un caso che dovrebbe far notizia, ma non per lui: «Non capisco tutta questa tensione fra cristiani e musulmani qui dalle parti vostre. Mio padre era musulmano, mia moglie è musulmana. Alcuni miei fratelli vanno in moschea, altri vengono in chiesa con me. Dov’è il problema? Anche a me i guerriglieri volevano tagliare le braccia, ma non certo per una guerra di religione». La Sierra Leone dà lezioni di tolleranza al Mediterraneo culla di civiltà, ehm.
FAVELADOS CONTROCORRENTE E MARZIANI KAZAKI
C’era Mettanando Bhikkhu, fisico laureato a Oxford, monaco buddhista thailandese di altissimo profilo, membro del Consiglio mondiale delle religioni per la pace e della fondazione creata dal re della Thailandia Bhumibol Adulyadej, che ha esordito affermando: «La mia esposizione non sarà molto ortodossa: farò una critica spietata del buddhismo, vi mostrerò i suoi punti deboli». E giù una ricognizione storica delle collusioni del buddhismo col potere politico e una spietata analisi dell’“egoismo buddhista” nelle sue varie forme. Compresa una confidenza finale: «Sapete come fate a sapere se un buddhista vi sta raccontando bugie? Se vi dice: “te lo giuro su Dio”». Alla faccia degli sdilinquiti discepoli occidentali di Siddharta!
C’erano Marcos Zerbini e Cleuza Ramos, leader dei favelados di San Paolo, che non hanno risparmiato le critiche al presidente Ignacio Lula da Silva, idolo dei No global nostrani: la sua vittoria non è quella dei movimenti popolari (vedi il nostro articolo a p. 19).
C’erano un gruppo di marziani provenienti dal Kazakistan (come definirli in altro modo), giunti a Rimini grazie a legami di amicizia con un sacerdote italiano che insegna nelle università kazake, don Edo Canetta. Il quale, stando a quanto affermato pubblicamente da Murat Kazhi Mynbayev, rettore dell’università islamica kazako-araba Rukhaniat, nell’anno accademico che si apre terrà corsi di storia dell’arte cristiana e della Chiesa cattolica ed esegesi comparata della Bibbia e del Corano. Sì, avete letto bene: un sacerdote cattolico insegnerà in un’università islamica finanziata principalmente dall’Arabia Saudita. Impossibile? Non col rettore attuale, che dice: «Alcuni sono preoccupati perché nella nostra università vengono formati musulmani fondamentalisti, come se si trattasse di terroristi. E invece sono musulmani fondamentalmente onesti, fondamentalmente misericordiosi, fondamentalmente tolleranti delle altre religioni». Sarà per questo che la sua università ha aperto filiali anche negli Stati Uniti. Del resto il Kazakistan è anche il paese dove la principale rivista letteraria pubblica un numero monografico sulla letteratura italiana da Dante Alighieri ad Umberto Eco, e nell’antologia sono compresi anche brani di monsignor Luigi Giussani, un importante autore religioso contemporaneo.
Infine, il Meeting è quel luogo dove grandi firme del giornalismo italiano e spagnolo credono di poter fare il tiro al piccione col direttore della sulfurea Al Jazeera, ma il piccione si rivela un abile prestigiatore che se li fuma tutti nella pipa. Sì, perché Wadah Khanfar, elegantissimo direttore generale di Al Jazeera, a chi lo pizzica sulla messa in onda di videocassette di provenienza terrorista, sul diritto di parola ai simpatizzanti di Al Qaeda o sulle incendiarie prediche televisive di Qaradawi risponde che le emissioni sotto accusa ammontano a meno dell’1 per cento delle trasmissioni, che Al Jazeera è la prima tivù araba che ha dato spazio a interlocutori israeliani, che in una società complessa bisogna dare spazio a tutte le voci proprio per smorzare gli estremismi; al direttore del Corriere della Sera che gli fa le bucce sul presunto deficit di modernità della sua tivù, tecnologica ma non sostanziale, Khanfar risponde accusando di etnocentrismo: «Non pretenderete che sostituiamo in toto la nostra cultura con quella occidentale. Tutti i nostri giornalisti devono conoscere l’inglese, e molti un’altra lingua europea. Leggiamo e comprendiamo i vostri giornali. Ma quanti dei vostri giornalisti sono in grado di leggere la stampa araba e ascoltare i nostri notiziari?». La prossima volta, cari direttori italiani, bisognerà prepararsi meglio.
POLITICA OLTRE IL TEATRINO
Sono stati sprecati fiumi d’inchiostro per dire che questa 25ª edizione del Meeting avrebbe snobbato la politica e, come spesso accade in questi casi, la notizia è falsa. Certo se per politica si intende il “teatrino” che periodicamente va in scena nei Palazzi romani, il Meeting non solo l’ha snobbato, ma l’ha esplicitamente rifiutato. A Rimini non c’è stato posto né per i “nani” né per le “ballerine”: la politica è una cosa seria e come tale va trattata. Parafrasando uno dei titoli dei tanti incontri che hanno segnato questa settimana, la politica è quella “per il popolo e del popolo”. Fuori da questa strada non c’è discussione che tenga.
Chi non ha capito questo (come ad esempio il ministro Maroni che, dovendo scegliere, ha preferito essere presente alla Festa dell’Unità di Genova) ha perso un’occasione: peccato! La parola che più di tutte ha segnato la settimana di incontri è stata sicuramente la parola “dialogo”. Certo, in un’epoca come la nostra, è difficile trovare personaggi politici che non si riempiano la bocca di proclami sulla necessità di superare il muro contro muro che spesso caratterizza il dibattito tra gli schieramenti. In questo senso il Meeting poteva trasformarsi in una sorta di grande “Woodstock della politica”, una settimana di “pace e politica”. Poteva perché non è stato così. A Rimini il dialogo non è stato mai astratto, ma soprattutto è stato dialogo sui contenuti. E chi, venendo al Meeting, pensava solo a conquistare il consenso della platea, ne è uscito sconfitto.
Non è un caso perciò che Sandro Bondi e Roberto Formigoni abbiano scelto proprio Rimini per rilanciare la proposta di dar vita ad una «casa italiana del Partito Popolare Europeo». Una proposta che è molto di più di un tormentone estivo e che si pone come unica vera novità all’interno del panorama politico italiano. A chi, fino ad oggi, ha accusato Berlusconi di essere un monarca assoluto, Forza Italia risponde con una nuova prospettiva. Non si tratta né di una riproposizione della vecchia Dc né di un nuovo grande “partito conservatore”; la casa italiana del Ppe, ha spiegato lo stesso Bondi, «sarà una formazione che raccoglierà insieme tutte le forze moderate che hanno fatto la storia dell’Europa».
In tal senso colpisce che sia stata proprio Forza Italia, accusata in passato di essere un “partito di plastica”, a promuovere questa iniziativa. «Questo perché – dice Formigoni – Forza Italia è un partito che non si accontenta di quello che è, ma sa mettersi in discussione e ripensarsi». Ed è così che il Meeting che snobba la politica è diventato il luogo dove Marco Follini, fino a pochi mesi fa vera spina nel fianco della maggioranza di governo, ha espresso il proprio interesse e la propria disponibilità a dialogare sulla costituzione del Ppe made in Italy. Non solo, il ministro Maurizio Gasparri, intervenendo sabato, ha addirittura rilanciato promuovendo la nascita di una federazione che abbracci oltre ai partiti del Ppe anche le forze laico-socialiste, cattoliche e radicali. Niente male per un Meeting che non si interessa alla politica.
RIFORMISTI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI
Un altro tormentone della settimana riminese è stato quello del riformismo. Anche qui sarebbe stato facile scadere nell’ovvio. Ormai non passa giorno che, in qualsiasi parte d’Italia, non nasca un riformista. Peccato che poi chi governa, sia egli di destra o di sinistra, tormentato dall’incubo di perdere le elezioni, preferisca abbandonare la strada delle riforme per intraprendere quella della difesa della status quo. La politica della rendita non piace al Meeting, ma non piace neanche all’Intergruppo per la Sussidiarietà che, proprio dal palco di Rimini, ha lanciato un documento programmatico che servirà da «piattaforma comune che contenga alcune priorità condivise che permettano il confronto fra le parti». Cinque i punti: valorizzazione del capitale umano (unica vera ricchezza del paese), meno finanza e più economia reale, una corretta definizione della sussidiarietà orizzontale (nuova modalità di rapporto Stato-impresa-persona) e di quella verticale, e, udite udite, la lotta alle rendite.
La cosa colpisce ancora di più se si leggono i nomi dei firmatari di questa piattaforma comune: si va dai forzisti Maurizio Lupi, Luigi Casero, Angelino Alfano, Gianfranco Blasi e Grazia Sestini, al Ds Pierluigi Bersani, fino ad Enrico Letta (Margherita), Ermete Realacci (Margherita) e Luca Volonté (Udc). Senza contare che, all’Intergruppo, aderiscono oltre 250 parlamentari appartenenti a quasi tutti gli schieramenti politici.
Il riformismo quindi è molto di più di un termine alla moda, è la possibilità di incontro e dialogo tra persone appartenenti a tradizioni culturali e politiche diverse. Il tutto senza rinunciare alla propria identità perché, come recita anche il manifesto dell’Intergruppo: «Senza identità non può esserci dialogo». «La politica – ci dice Maurizio Lupi – è passione per l’uomo ed è proprio questo che ci accomuna nell’Intergruppo a partire dall’identità di ognuno».
Eccolo qua il segreto del Meeting: la politica come passione per l’uomo. Una politica che riconquisti la centralità della persona, questo è ciò di cui si è discusso e di cui si continuerà a discutere a Rimini. Al punto che, proprio dal Meeting, è partita un’altra grande proposta che segnerà il panorama politico dei prossimi mesi: l’opportunità di sottoporre a referendum popolare la nuova Costituzione europea. «Ribadiamo – si legge in una nota – di essere molto preoccupati per il progetto di Costituzione europea che si sta cercando di imporre agli stati dell’Unione. Il carattere autoritario e neo nazionalista del progetto viene sempre più confermato dai fatti. Una Costituzione che apre il varco ad egemonie dei singoli Stati e allo sgretolamento del valore della persona; una Costituzione che impedirebbe all’Europa di corrispondere alla sua vocazione storica non ci va. Non siamo di certo contro l’Europa, siamo contro questa Costituzione. Chiediamo che il progetto sia sottoposto a referendum tanto più che, sin dal XIX secolo, in Europa si è affermato il principio che le Costituzioni le fanno i popoli e non i sovrani». Ecco, lo slogan del Meeting di quest’anno, potrebbe essere: basta con i sovrani, più spazio ai popoli e alle persone. Se questo è il punto di partenza, è possibile dialogare con tutti (anche con chi milita in uno schieramento che, come ha detto il senatore Giulio Andreotti, sta insieme solo per «prendere un voto più di Berlusconi»). Il Meeting è andato oltre il teatrino e ha costretto la politica a cambiare, ha costretto chi comanda a fare i conti con la voglia di cambiamento di un popolo che non si accontenta di nani, ballerine e giochi di prestigio.
DIO NELLE MANI DELL’UOMO
E il progresso? E la tensione continua alla meta? Tranquilli. Il Meeting non pone mai le questioni contenute nel titolo (“Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati, ma nel tendere continuamente alla meta”) per lasciarle poi appese per aria. Ad ogni edizione grandi incontri e/o grandi interventi esprimono pensieri e parole d’ordine che fanno al caso. Parole d’ordine nel senso che fanno ordine nel cuore e nella mente perché non enunciano interpretazioni, ma descrivono fatti, realtà dell’ordine dell’essere. La XXV edizione ha preso l’abbrivio dalle parole del messaggio di Giovanni Paolo II all’apertura del Meeting («Il cristianesimo… costituisce il più grande fattore di vero progresso, perché Cristo è principio inesauribile di rinnovamento dell’uomo e del mondo») e si è chiusa nel riconoscimento di un «appassionato amore al mistero dell’uomo… appassionato calore, appassionato affetto per quello che l’uomo può fare, essere e centrare nella sua storia» evocato dall’estemporaneo intervento di mons. Luigi Giussani al termine dell’incontro in cui il teologo Julián Carrón ed il poeta Bruno Tolentino hanno presentato l’ultimo libro che raccoglie dialoghi del “Gius”: Una presenza che cambia. Si è partiti da Cristo per approdare alla costruttività umana, cioè un po’ il contrario di quello che si fa nel “Percorso” del senso religioso, dove si parte dall’anelito umano per approdare alla risposta della Rivelazione divina. E allora? Il senso di questi richiami che hanno sorpreso qualcuno emerge dalla relazione del cardinale Angelo Scola di venerdì 27 dedicata al titolo del Meeting e dalle parole di Julián Carrón nell’ultima giornata. Il patriarca di Venezia ha spiegato che la traiettoria del progresso è illustrata dalla prima lettera della Bibbia: Dio esce dalla sua “casa” (significato della lettera bet, che è un quadratino chiuso su tre lati e aperto su quello sinistro) per compiere la creazione e indica all’uomo il cammino da percorrere. «La meta c’è. È il Padre che ci apre la strada di casa. Ma essa non dipende ultimamente da noi e le tre porte ancora chiuse sono lì a ricordarcelo». Il problema è che «siamo uomini impagliati», come ci ricorda T.S. Eliot, che “marciano sul posto” anziché progredire, e che si prefiggono, come raccomanda Nietzsche, di “superare” l’uomo nel superuomo piuttosto che di realizzare l’umano. Ma non bisogna disperare, perché, come scrive H.U. Von Balthasar, «Dio non è una fortezza rinchiusa che noi con le nostre macchine da guerra dobbiamo espugnare, è invece una casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati ad entrare». Carron in qualche modo ha ripreso il paradigma e lo ha esplicitato, nella conferenza stampa coi giornalisti e davanti al popolo del Meeting: «Nietzsche ha scritto che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni; il libro di Giussani dice esattamente il contrario: nei fatti c’è una presenza che permette di uscire dalla confusione delle interpretazioni. L’ideologia non si vince con un’altra ideologia, ma sottoponendo una realtà all’esperienza di tutti». Ecco il senso di un discorso che muove dalla realtà di Cristo per approdare alla grandezza umana: «Dio ha affidato il contenuto della sua proposta al contenuto della nostra esperienza. Perché avvenga il paragone con la proposta di Cristo devono entrare in gioco la tua umanità, il tuo io, la tua ragione. Cristo non è contro l’uomo e la sua centralità: il giudizio umano su Dio è affidato esattamente alle mani dell’uomo. Il problema è che tante volte l’uomo ha paura della sua grandezza». Altro che integralisti cristiani: più laici di così si muore.
Reportage a cura di Rodolfo Casadei, Caterina Giojelli e Nicola Imberti
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