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Il lavoro è mio e lo negozio io

Perché tra le prime cause del mancato sviluppo del Sud bisogna annoverare la contrattazione nazionale. Breve demolizione di un fenomeno autoritario che ha soffocato la libertà di manodopera

Carlo Lottieri
20/09/2017 - 3:00
Economia
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lavoro ansa

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Il tema torna periodicamente nella discussione pubblica italiana, ma ogni volta è subito accantonato. Qualsiasi proposta di superare la contrattazione nazionale, in effetti, si scontra con una serie di difficoltà, a partire dal rigetto della sinistra italiana nei riguardi dell’autonomia contrattuale. Non è un caso che, tra gli esperti di diritto, i più schierati su posizioni illiberali siano i giuslavoristi e che, al tempo stesso, il gruppo che conta il più alto numero di vittime del terrorismo comunista sia proprio questo: per la tradizione marxista, infatti, la peggiore delle ingiustizie ha luogo nelle relazioni contrattuali tra chi vende e chi compra lavoro.

Da tutto questo discende che anche molti tra quanti non nutrono la minima simpatia per le tesi sostenute nel Capitale ritengono che la libertà di decidere in merito ai propri rapporti di lavoro non possa essere lasciata nelle mani di imprenditori e dipendenti. È tesi accettata da molti che lo scambio configuri un conflitto, dove il più forte vince a scapito del più debole. L’unica soluzione, quindi, consisterebbe nel continuare a confiscare il diritto di lavorare con chi si vuole e come si vuole, lasciando ogni decisione a sindacati, Confindustria e legislatori.

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Il giusto prezzo
Qualche settimana fa, senza troppo speculare su libertà e diritti, gli economisti del Fondo monetario internazionale hanno richiamato l’attenzione sulle distorsioni causate dai contratti nazionali e hanno suggerito che una liberalizzazione del mercato del lavoro sarebbe di grande aiuto al nostro sistema produttivo. La loro tesi è che la fine dei contratti nazionali e il passaggio a contratti aziendali potrebbe portare a una riduzione del 3,5 per cento della disoccupazione. Queste cifre vanno sempre prese con le molle, ma è sicuramente vero che norme che eguagliano il costo del lavoro da azienda ad azienda, e da regione a regione, generano serie difficoltà a chi vuole intraprendere e a chi cerca un posto.

È sufficiente avere due nozioni elementari di economia per comprendere che un salario è un prezzo e che quando esso viene fissato in modo arbitrario ne discende che in qualche caso c’è chi non è disposto a vendere e in altri c’è chi non è disposto a comprare. Nel caso italiano, appare chiaro che stipendi pensati per il Centro-Nord (dove si concentra la gran parte del sistema produttivo) sono fatalmente all’origine di larga parte della disoccupazione del Mezzogiorno. Chiunque può comprendere che se un lavoratore meccanico o siderurgico deve essere pagato allo stesso modo in Lombardia o in Calabria, ben pochi andranno a investire nella regione meridionale. Se vorranno trovare manodopera a un costo inferiore andranno allora in Croazia, in Ungheria o in Romania.

Dalla Lombardia alla Calabria
Non si tratta solo e in primo luogo di un rapporto tra Sud e Nord, o tra le differenti regioni. Anche a pochi chilometri di distanza vi possono essere possibilità di contratti molto differenti. E questo perché anche nella medesima realtà territoriale vi sono imprese che operano molto meglio di altre e che, di conseguenza, per mantenere i propri dipendenti (e motivarli) possono essere disposte a spendere assai di più.

Nel caso italiano, però, ogni ipotesi di superamento dei contratti unitari obbliga immediatamente a riconsiderare quelle che un tempo erano chiamate le “gabbie salariali” e che un ingenuo egualitarismo – inconsapevole delle differenze, della complessità della storia e della varietà del nostro paese – ha voluto buttare via. Il progetto di chi ha uniformato i salari in tutta Italia era di garantire a chiunque lo stesso tenore di vita: il risultato, però, non appare soddisfacente. In effetti i dati ci dicono che, in media, un lombardo ha un reddito nominalmente doppio rispetto a quello di un calabrese: grazie alla maggiore presenza di imprese e imprenditori, alla più alta occupazione, alla maggiore concentrazione di posizioni professionali della fascia superiore. Se fissando contratti nazionali validi da Bolzano a Enna si volevano eliminare le differenze, il risultato è stato fallimentare. E se oggi si vuole aiutare il Sud ad attirare capitali e investimenti bisogna ripartire dalla realtà.

Permettere una contrattazione regionale sarebbe già un miglioramento. È però vero che si riprodurrebbe, in piccolo, lo stesso errore fatto finora. Se Vicenza non è Siracusa, è altrettanto vero che Milano non è Sondrio. In forma attenuata, si avrebbero nuove “tariffe” (prezzi artificiali) destinate a falsare di nuovo le relazioni di mercato e, di conseguenza, a generare altra disoccupazione involontaria. E se non è bene che sindacati e associazione delle imprese decidano per tutta la Lombardia, egualmente non ha senso che si tolga al singolo individuo – qualora non voglia delegare altri – la libertà di decidere in merito al proprio lavoro. Per questo motivo, sarebbe opportuno partire dal ragionevole suggerimento avanzato dagli economisti del Fmi per riscoprire le ragioni morali della libera contrattazione: del diritto di ognuno a cooperare con chi vuole e come vuole.

Marxismi indifendibili
Come si è detto, quanti avversano l’autonomia negoziale della persona sono eredi di logiche latamente marxiste e se oggi magari non ricorrono più all’argomento del plus-valore (che la maggior parte dei marxisti stessi ha accantonato all’indomani della rivoluzione marginalista, che ha messo fuori corso la teoria del valore lavoro) egualmente reputano che la libertà del mercato autoregolato sia riconducibile alla formula “libera volpe in libero pollaio”. Il contratto non sarebbe mai equo, perché, nel confronto tra chi offre lavoro e chi lo compra, il secondo sarebbe in posizione di forza. Il ricco imprenditore potrebbe resistere più a lungo e, di conseguenza, potrebbe ottenere quello che vuole. La tesi sembra solida, ma non è così.

È vero che l’imprenditore, solitamente, è più ricco dei propri dipendenti, ma questo non significa che egli sia facilmente disposto a fare a meno di loro. Come rilevò Bruno Leoni, se l’industriale e l’operaio avessero i medesimi obiettivi (ad esempio, nutrire i figli e pagare il mutuo della casa) il primo sarebbe in una condizione molto migliore. In generale, però, il titolare di un’azienda ha altri progetti e la semplice idea di restare anche solo una settimana con gli impianti inattivi può indurlo talora ad accettare contratti molto onerosi. Assurda sul piano etico-giuridico (poiché sottrae ai singoli la libertà di agire autonomamente), la tesi avversa ai contratti individuali è indifendibile anche sul piano economico.

Qui come in altri casi, si scopre che la difesa di solidi princìpi morali (non usare violenza su innocenti, non impedire libere relazioni contrattuali, non ostacolare lo sviluppo di una cooperazione spontanea) produce pure buoni risultati sociali. La contrattazione nazionale è figlia di una logica autoritaria, avversa al mercato, e di un nazionalismo uniformante, che ha impedito al Mezzogiorno di trovare una sua strada verso la crescita.

@CarloLottieri

Foto Ansa

Tags: disoccupazioneimpresesud italia
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