
Il dibattito sull’antifascismo, Bobbio, Lerner, 1° e 2° Repubblica, quella di Scalfari e De Benedetti. E lambrette rosse
Bobbio, “io fascista e antifascista”
“Ero immerso nella doppiezza, fascista tra i fascisti e antifascista con gli antifascisti. Non ne parlavo perché me ne ver-go-gna-vo (…) Il mio fascismo, il mio filofascismo familiare, scorreva accanto alla vita di tutti i giorni di uno studente appassionato di studio”. Così, sul Foglio di venerdì 13 novembre un inedito Norberto Bobbio rievocava la sua giovinezza durante il Ventennio, quando aderiva al fascismo pur avendo molte amicizie tra gli antifascisti. Va imputata a Pietrangelo Buttafuoco, secondo l’opinione espressa da Gad Lerner su Repubblica di sabato 13, “il migliore tra i giovani giornalisti emersi dal vivaio del neofascismo”, la colpa di aver fatto cadere l’ormai vulnerabile novantenne filosofo torinese, occupato negli “ultimi, spietati conti con se stesso”, in un tranello fatto di domande tendenziose fino a condurlo, surrettiziamente, a rivedere il suo giudizio storico sulla “piaga italiana di questo secolo”. Gad Lerner denunciava “il rovistare impudico, la violenza sorridente, il finto rispetto” nei confronti dell’anziano “teorico dell’antifascismo come valore necessario all’identità nazionale”; un’“operazione ideologica mirata a correggere il giudizio storico del Bobbio sul fascismo”, risolta infine in un “goffo tentativo di mettere sullo stesso piano fascismo e antifascismo”.
Ferrara vs Lerner Una confessione estorta, quindi, coi metodi della tortura inquisitoria, anche se era stato lo stesso Bobbio a cercare quell’intervista. Si stupisce di tanto livore anche Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera di domenica 14: quella del Foglio è un’intervista che ci aiuta a capire cosa sia stato il fascismo e “abbandonare quella interpretazione semplicistica e caricaturale secondo la quale il fascismo sarebbe stato una sorta di male assoluto” mentre era “un regime cui poterono aderire milioni di italiani e italiane dei più diversi ceti sociali e di tutte le età”.
Il lunedì è lo stesso Giuliano Ferrara a tornare sulla querelle arrivata perfcino sul francese Le Monde: “Gad Lerner ha scritto un pezzo un po’ piccino per la sua stazza professionale. Come mai?” “C’è qualcosa di emendabile che appartiene a una vecchia cultura dell’appartenenza e della vecchia religione civile dei progressisti, a una mentalità di cosca perbenista che sta soppiantando negli ultimi tempi la paciosa sensazione di una volta: quella di stare con tutte le scarpe, senza farsi troppe domande e provare troppe paure, nel terreno sicuro di un establishment che li coccola nell’autorevolezza della tradizione”. La tradizione dei giusti, per definizione contro il male assoluto del “fascismo”.
Ti ricordi, Gad? Così, martedì 16 Andrea Marcenaro rivolgeva una lettera affettuosa al suo vecchio compagno “lottacontinuista”: “Perché Gad, quel tono astioso” al punto “da impedirti di ascoltare i sentimenti e le parole. Questo mi ha colpito: che proprio tu negassi il diritto alla sorpresa e alla novità delle cose…. che voltassi le spalle all’imprevisto… ma tu eri il contrario di così. Ti ricordi?”.
A chi la purezza, a noi! “Il punto chiave – scriveva Giuliano Ferrara sull’Unità di martedì 16 – è quello dell’antifascismo cosiddetto militante. Per me ancora oggi l’antifascismo è un presupposto, un’ovvietà costituzionale. È un principio di legittimazione della Repubblica, che però, non mi vieta di credere nel superamento di quella Repubblica ciellenista come forma istituzionale e non mi obbliga al bigottismo dell’antifascismo come ‘religione civile’”. Gli rispondeva il direttore dell’Unità Piero Sansonetti: “Il fascismo non fu semplicemente un regime autoritario, fu un fenomeno politico internazionale che portò l’Occidente alla barbarie e lo portò sull’orlo della perdita della civiltà”. “Per queste ragioni il fascismo non è paragonabile a nessun altro fenomeno politico – per quanto autoritario, sanguinoso e abbietto”. Il fascismo è il male e la civiltà si può fondare solo sull’antifascismo. Perciò Ezio Mauro su Repubblica dello stesso giorno trova inaccettabile l’“ondata di revisionismo feroce” “che sta investendo le vicende italiane”. Dal caso Craxi, ad Andreotti, a Bobbio e l‘antifascismo, tutto sarebbe utilizzato per “delegittimare la classe dirigente del centrosinistra a favore della destra berlusconiana” che, tra l’altro, con le sue pratiche corruttive danneggiò anche la stessa Repubblica e il suo gruppo editoriale.
Arsenico e vecchie telescriventi “Quando parla di corruzione – gli risponde mercoledì 17 Ferrara – con quella disinvoltura da trombettiere del pubblico ministero, sa il nostro amico Mauro che il suo editore è reo confesso di quel reato, per aver rifilato telescriventi in disuso alla pubblica amministrazione via mazzette multimiliardarie, ma che il processo è insabbiato nel porto delle nebbie da sei anni?”. La storia d’Italia è, quindi, quella di fascisti contro antifascisti, puri contro corrotti? Se la risposta di Giorgio Bocca, giovedì 18 si esprime in una strenua difesa dell’azionismo, “partito virtuale”, ma “centrale nella vita del paese”, “l’opposto di tutti i vizi e le debolezze secolari della nazione, di una virtuosità giacobina…” e quella di Eugenio Scalfari sull’Espresso (che venerdì 19 liquida Bobbio, in un boxino a pag. 53, come un povero vecchio rimbambito dagli anni) si traduce in un’eterna professione di antifascismo militante, sul Foglio di giovedì 18, Antonello Capurso pubblica l’eccezionale documento di una lettera che il padre Marcello, tra i principali esponenti della resistenza azionista romana, scrisse nel ’45 a Riccardo Bauer, direttore della rivista azionista “Realtà politica”.
“Eravamo moralmente integri, come il regime ci voleva”
Si tratta della straordinaria confessione, oltre mezzo secolo prima di Bobbio, di chi si trovò appena ventenne in quel “momento particolarmente tormentato della storia del nostro paese” che portò al fascismo e “ne provocò la mia accettazione, come quella di tanti miei coetanei”. Una testimonianza di vita quotidiana di buoni lavoratori, padri di famiglia coscienziosi, intellettuali moralmente integri, ma senza un’unità di popolo, perché “la dittatura, separandoci dal corpo vivo della nazione ci aveva abituati senza che ce ne accorgessimo neppure, a chiuderci nel nostro mondo particolare, a estraniarci dalla vita reale del paese, a limitare le nostre esigenze morali nella sfera ristretta della nostra azione individuale”. “Eravamo – concludeva Capurso – precisamente quali la dittatura ci aveva fatti”.
Duri (e puri) da stadio…
Storie comuni di uomini, insomma, che nella Milano delle occupazioni studentesche trovano nuovi elementi di cronaca. All’annuncio dei centri sociali di voler “occupare simbolicamente” il liceo privato Gonzaga, gli assessori Maurizio Lupi (urbanistica) e Sergio Scalpelli (sport e giovani) avevano dichiarato di voler di intervenire a sostegno dei diritti degli studenti e genitori del Gonzaga contro ogni forma di minaccia e sopraffazione. Da Repubblica, giovedì 18, partiva l’offensiva con Fabio Zanchi che attaccava il vecchio amico Scalpelli per non aver rivolto la stessa solidarietà a bidelli, professori, studenti e insegnanti delle statali e accusandolo di impegnarsi più in iniziative promozionali e di facciata che nei problemi della città, “di parlare più che di fare”. Venerdì, Scalpelli rispondeva su Il Giornale al “vecchio amico comunista di destra, tanto simpatico quanto intristito dalla penosa involuzione dorotea della sinistra”: “Se nei mesi scorsi, invece di chiamare la mia segreteria per chiedere di tanto in tanto biglietti-omaggio per le partite di calcio, si fosse fatto vivo con me per parlare del governo della città, oggi continuerebbe a essere un militante in ansia, ma sarebbe anche un cittadino più sereno”.
e lambrette rosse Se Capurso, di questo dibattito, offriva la lectio maior, Scalpelli ne mostra la lectio minor: la vita, anche quella dei militanti duri e puri, in fondo è fatta di rapporti, amicizie, “onesti padri di famiglia”, grandi battaglie ideali e biglietti dello stadio. Una storia di uomini, insomma. Come quella, che ci siamo trovati per caso a incrociare, di una vecchia lambretta rossa appartenuta proprio a Fabio Zanchi, poi passata a Sergio Scalpelli, da lui al direttore di Studio Aperto Paolo Liguori e ora, più modestamente, al sottoscritto.
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