Il delitto di Paderno e il senso delle cose
Il delitto di cui si è reso protagonista un diciassettenne di Paderno Dugnano, che ha ucciso a coltellate prima il fratello dodicenne e poi i genitori, lascia sbigottiti. Si rimane sgomenti per un assassinio di cui sappiamo – è bene ricordarlo – poco. Anche se i media se ne sono molto occupati, a noi arrivano solo frammenti di notizie (e questo dovrebbe renderci molto cauti nelle interpretazioni).
Il ragazzo non aveva problemi di droga, non era, così ci dicono, “problematico”, non aveva rapporti complicati con gli amici e, pare, nemmeno con i suoi familiari. Non sembra, almeno a leggere le interviste di chi lo frequentava apparse in questi giorni sui quotidiani, che avesse dato “segnali” che facessero presagire i suoi intendimenti.
Allora: perché? Perché lo ha fatto? Secondo quanto riportato dai media, lui stesso ha spiegato che si «voleva liberare». Poi, appena commesso il delitto e dopo essere stato messo alle strette dagli inquirenti, ha confessato e preso coscienza di non aver ottenuto la «liberazione» che cercava. Ha chiesto di vedere i nonni, come se volesse, ora, riallacciare almeno con qualcuno quei legami che aveva brutalmente reciso.
Una profondità inafferrabile
Tra le molte interpretazioni date all’omicidio, due hanno attirato la nostra attenzione. Sono gli articoli di Davide Rondoni sul Quotidiano nazionale (“Senza un movente. I misteri del male e gli abissi umani”) e di Maurizio Crippa sul Foglio (“Il diavolo probabilmente”) in cui si prova, non superficialmente, a guardare dentro «l’abisso» che è accaduto – così scrive Rondoni –, senza edulcorarlo con spiegazioni consolatorie (Crippa).
«Questo è il primo problema», ci dice Luca Luigi Ceriani, psicoterapeuta e autore di un libro da poco uscito intitolato Agio o disagio. Domande e risposte sulla sfida di crescere (Ares). «Viviamo in una società che, di fronte a fatti come questi, vuole subito individuare il capro espiatorio, colui sul quale scaricare tutta la colpa per poi così ritrovare una presunta normalità e tranquillità». A volte il movente è identificato nel denaro (Erika e Omar), altre volte nel patriarcato (Cecchettin), ma questa volta è più difficile: qual è il movente? «Troppo spesso abbiamo la pretesa di spiegare tutto», prosegue Ceriani, «perché non vogliamo arrenderci a constatare un fatto che invece è innegabile: ogni uomo è di una profondità inafferrabile, la sua testa e il suo cuore rimangono misteriosi. Bisognerebbe innanzitutto dire questo, anziché farsi prendere dall’ansia di dare un nome al demone per esorcizzarlo il prima possibile».
Cosa è male e cosa è bene
Questo, prosegue lo psicoterapeuta, non significa che non si possa fare niente. «Se un comportamento ci appare inspiegabile, possiamo interrogarci sull’ambiente che quel comportamento ha generato. In questo senso la tragedia di Paderno riassume un disagio collettivo e reale. I nostri ragazzi sono l’espressione di un mondo adulto patologicamente spaventato dalla profondità della relazione. Anche oltre il caso specifico di cui, ripeto, sappiamo solo alcuni dettagli, non nascondiamoci il fatto che il mondo in cui viviamo oggi è un mondo che ti lascia solo, non ti guarda, non ti parla. Ti misura a seconda della tua prestazione, senza instaurare con te una relazione profonda, umana e significativa».
Cosa significa? «Significa che troppo spesso, non volendo dire cosa è “male” e cosa è “bene”, non volendo esporsi in un giudizio su ciò che ci sta intorno, cresciamo i nostri ragazzi nell’indifferenza, come se tutto fosse uguale e niente avesse importanza o comunque un’importanza relativa, senza senso».
Relazioni di senso
Ceriani insiste molto su questa parola: “senso”. «L’altra faccia della medaglia dell’indifferenza è l’imposizione, il famoso “devi farlo perché devi farlo” o, secondo una dizione più attuale, “devi farlo perché così potrai eccellere”. Ma un adolescente ha domande sulla vita che sono più radicali di queste riduzioni dell’esistenza a performance. Ai ragazzi manca la parola che racconti l’emozione, ma, anche se la trovassero, devono incontrare qualcuno che possa raccoglierla e che non sia spaventato dalle sue paure. È, appunto, una domanda di senso: perché devo fare questa cosa? Che senso ha?». La difficoltà, aggiunge lo psicoterapeuta, è che una risposta non può venire da un corso o da un libro, «ma attraverso la testimonianza, la comunicazione delle ragioni attraverso l’esperienza che, innanzitutto, l’adulto fa. Questo è il punto: se è l’adulto stesso a non sapere il significato delle cose che fa, come potrà mai comunicarlo?».
Di fronte alla rabbia dei giovani che vedono evasa la loro domanda di senso e il loro bisogno di relazioni occorrerebbe proporre una sorta di “clinica dei legami”, spiega Ceriani, e «anche i progetti di sostegno psicologico giustamente proposti nelle scuole, perché ci stiamo scontrando con una complessità nuova e che esige opportuni strumenti e competenze, non devono essere una delega o non si farà altro che aumentare la frustrazione. Gli adulti che si occupano dell’educazione dei ragazzi devono responsabilmente esprimere una visione della vita e quindi una “direzione di cura” dove sono integralmente coinvolti anche tra loro, perché sono credibili se, nel rispetto delle diverse competenze, offrono uno spaccato della realtà positivo e unitario. Il senso che conferiamo all’esistenza si comunica solo dentro una relazione: in una relazione tra l’adulto e il ragazzo e, contemporaneamente, in una relazione tra adulti».
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