
Il Cristo di noi appestati
La passione che “incatenò” per parecchi anni Joris-Karl Huysmans, – padre del decadentismo francese che, con il suo romanzo A Rebours influenzò più di un’opera dell’epoca, da Il piacere di Gabriele D’Annunzio a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde – all’opera di Matthias Grünewald, l’ultimo dei grandi pittori gotici tedeschi, e in particolare alla sua Crocifissione e Resurrezione ha del clamoroso. Il primo è uno dei padri della generazione dei maledetti, da Baudelaire a Rimbaud, i cui romanzi nella Francia dell’Ottocento, prima della conversione, venivano giudicati offensivi del comune senso del pudore. Il secondo è un pittore del Cinquecento tedesco, cattolico, ma con una sensibilità ancora gotica, medievale. Due personaggi lontanissimi. Eppure sono commoventi le pagine che questo “appestato” della cultura moderna ha dedicato all’opera del grande artista tedesco e in particolare alla Crocifissione del polittico di Isenheim, conservato nell’antico convento di Unterlinden, a Colmar, in Francia.
Il precettore del convento di Isenheim, Guido Guerci, commissionò a Grünewald questo polittico. In quel convento, all’epoca diventato ospizio, stavano gli antoniani che curavano il fuoco sacro. L’erpete, chiamato anche fuoco d’inferno o fuoco di Sant’Antonio, fece la sua comparsa devastante in Europa nel X secolo. Aveva allo stesso tempo le caratteristiche dell’ergotismo cancrenoso e della peste. Si manifestava con postemi e ascessi, attaccando a poco a poco tutte le membra e, dopo averle consunte, le staccava brano a brano dal tronco. Per quel male allora non esisteva rimedio. Quello dipinto da Grünewald, dunque, era il Cristo dei maledetti, degli appestati a vita, degli incurabili, dei lebbrosi, dei rifiutati da tutti.
«Al centro del quadro – scrive Huysmans -, un Cristo gigantesco, sproporzionato, ove lo si paragoni alla statura dei personaggi che l’attorniano, è inchiodato a un albero mal scortecciato, che lascia intravedere qua e là la biondezza del legno fresco, e l’asse orizzontale, tirato dalle mani, si piega e disegna, come nella Crocifissione di Karlsruhe, la curva tesa dell’arco; il corpo nelle due opere è simile; è livido e lucido, picchettato di sangue, irto come un riccio di una castagna, per le schegge delle verghe rimaste nelle piaghe; all’estremità delle braccia, smisuratamente lunghe, le mani si agitano convulse e graffiano l’aria; i nodi delle ginocchia accostate sono rivolti all’interno, e i piedi, ribaditi uno sull’altro da un chiodo, non sono più che un ammasso confuso di muscoli sui quali le carni guaste e le unghie già blu stanno marcendo; il capo, circondato da una gigantesca corona di spine, si abbandona sul petto, che è come un sacco rigonfio, rigato dalla gabbia delle costole. Questo crocifisso sarebbe una fedele replica di quello di Karlsruhe se non fosse diversa l’espressione del viso. Gesù in effetti non ha più, qui, lo spaventoso rictus del tetano; la mandibola non si torce, ma pende, come staccata e le labbra sbavano. È meno raccapricciante, ma più umanamente umile, più morto. (.) L’uomo Dio di Colmar non è più che un tristo ladrone giustiziato. (.) A destra della croce, tre personaggi: la Vergine, San Giovanni e la Maddalena. San Giovanni, un vecchio studente tedesco, dal viso glabro e pietoso, dai capelli gialli che ricadono in lunghi filamenti secchi sul suo abito rosso, sostiene una Vergine straordinaria, vestita e velata di bianco, in atto di venir meno, bianca come un cencio, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta che lascia scorgere i denti; la figura è esile e fine, del tutto moderna. Senza la veste d’un verde cupo, che s’intravede là dove ne sbucano mani le cui dita son tanto contratte da spezzarsi, la si scambierebbe per una monaca di clausura morta; è patetica e incantevole, giovane, veramente bella; dinanzi a lei, una donna minuscola sta riversa all’indietro, a braccia levate e a mani giunte verso il Cristo. Costei, bionda, già matura, vestita d’un abito rosa bordato di verde mirto, il volto velato fin sotto gli occhi, alla radice del naso, è la Maddalena. È brutta e scomposta, ma così realmente disperata da far provare all’anima una stretta e un senso di desolazione».
Huysmans nel romanzo saggio sul satanismo intitolato Là-bas e pubblicato nel 1891 (l’anno della sua conversione al cattolicesimo), scrisse alcune delle sue pagine più drammatiche: «Ah! Davanti a quel Calvario imbrattato di sangue e annebbiato di lacrime, si era ben lontani da quei bonari Golgota che, a partire dal Rinascimento, la Chiesa ha adottato! Quel Cristo tetanico non era il Cristo dei ricchi, l’adone di Galilea, il bellimbusto pieno di salute, il grazioso giovane dai riccioli fulvi, dalla barba spartita, dai lineamenti cavallini e scipiti, che i fedeli adorano da quattrocento anni. Quello era il Cristo di San Giustino, di San Basilio, di San Cirillo, di Tertulliano, il Cristo dei primi secoli della Chiesa, il Cristo volgare, laido, avendo assunto su di sé ogni peccato e rivestito, per umiltà, le forme più abbiette. Era il Cristo dei Poveri, Colui che s’era fatto simile ai più miserabili fra quelli che veniva a riscattare, ai disgraziati e ai mendicanti, a tutti coloro sulla cui laidezza o indigenza s’accanisce la viltà dell’uomo; ed era anche il più umano dei Cristi, un Cristo dalla Carne triste e debole, abbandonato dal Padre che non era intervenuto se non quando nessun nuovo dolore era più possibile, il Cristo assistito solamente da sua Madre che certo aveva invocato, come tutti coloro che son torturati, con delle grida di bimbo».
L’audace Resurrezione
La parte posteriore dell’opera è dedicata alla Resurrezione, anch’essa ritratta al di fuori dei termini canonici. «Qui Grünewald – scrive ancora Huysmans – si rivela come il pittore più audace che sia mai esistito, il primo che abbia tentato di esprimere con la povertà dei colori terrestri la visione della divinità messa in croce che risorge, visibile a occhio nudo, nell’atto di levarsi dalla tomba. Noi siamo insieme a lui in piena esaltazione mistica, davanti a un arte strappata dalle sue postazioni, forzata ad avventurarsi nell’al di là più lontano di quanto alcun teologo avrebbe potuto, in questo caso, ordinargli di spingersi». Una modalità inedita che conquisterà anche Giovanni Testori. «Io però – disse il grande drammaturgo – continuo a preferire quella (la Resurrezione, ndr) di Grünewald, con questo manto che pare una placenta ancora nella tomba, e lui che non se ne sta dritto, in una posizione di astratto trionfo, ma è curvo, è affaticato, perché nei tre giorni passati nel sepolcro non se ne è rimasto con le mani in mano, ma è disceso agli Inferi». Ed è tornato.
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