Il “cantiere dell’assurdo” che lega Comacchio a Gerusalemme
Seguo l’incontro seduto tra due dei protagonisti del progetto, due lavoratori del braccio: Davide di Chioggia e Ciccio di San Benedetto Del Tronto. Partecipo liberamente solo per la curiosità suscitata dall’esperienza inaugurata in quella Terrasanta che ultimamente mi sta affascinando perché vorrei narrare il ciclo dell’impossibile che connota la presenza di una rete di cooperazione nella terra di Gesù. Quando insegnavo non facevo mai mancare ai miei studenti un video denominato ‘il cantiere dell’utopia’ che narrava il recupero nella basilica d’Assisi, dopo il terremoto, di una vela della volta absidale come un puzzle, pezzo per pezzo, senza alcuna analisi costi benefici…
Ho pensato che il titolo di questo mio pezzo avrebbe potuto essere ‘il cantiere dell’utopia’, poi per non copiare ho optato per ‘il cantiere dell’assurdo’. Il concetto è chiaro fin da subito nella spiegazione che ne fa Enrico Tiozzo che, tra il serio e il faceto, cioè con quel tono che lo contraddistingue e che rende simpaticamente umano ogni incontro, dà la parola ai suoi ospiti e sintetizza… l’assurdità del progetto. Per un’ora e mezza, nel tendone della ‘festa dei pesci marinati’ di Comacchio, si delinea ai nostri occhi la terra di Gesù e gli uomini e le donne che, amandola, continuano ad abitarla e trasformarla. Si tratta di un cantiere edile con maestranze provenienti anche dall’Italia, le famose squadrette impegnate al mattino nei lavori di un edificio importante di Gerusalemme, una gasthaus in zona Mamilla e nel pomeriggio in una visita guidata da Ettore Soranzo che aiuta ancor più la nostra immedesimazione perché non ci perdiamo il senso del luogo dove siamo capitati a lavorare…
È una riflessione sul senso del lavoro umano quella che viene introdotta in questo incontro pomeridiano dopo esser passati a mangiare nella stupenda struttura dove anticamente si arrostivano in decine di camini allineati gli spiedini di anguilla. Viene presentato un lavoro che non ha confini geografici ben delineati: si stenta a credere come si possa lavorare in una modalità che ha come fondamento un popolo di persone che si sono riconosciute nella stessa Speranza. Solo questo ha abbattuto alcuni confini che normalmente si ritengono invalicabili, tra cui quello della convenienza economica.
‘La nostra casa si allarga, la nostra terra si allarga e abbraccia nuovi orizzonti e uno diventa ‘operaio di Terrasanta’ in una costruzione che non è più soltanto materiale e che assume contorni quasi simbolici… Squadrette di persone provenienti dalle parti più disparate d’Italia, Lavello, Napoli, Giulianova, Chioggia, Ferrara: un patrimonio cui ciascuno di noi può contribuire, una storia nuova che ci aiuta a costruire un cantiere più grande rispetto a quello che ciascuno di noi avrebbe pensato o voluto per sé…’
E’ un criterio nuovo con cui lavorare come appare evidente nelle parole dell’architetto Stefano Matteoni che testimonia come in quella strana terra siano prevalse ‘ragioni di scopo’ e ‘ragioni economiche’ totalmente divergenti. Un modo di lavorare che cambia la stessa vita di cantiere: lavorare e mangiare assieme per raccontarsi il lavoro, condividendo anche la propria vita. Alle soglie della pensione Stefano scopre di poter rimettersi in gioco in una esperienza privilegiata come gli sarebbe piaciuto lavorare sempre.
‘Il sepolcro vuoto, la grotta della natività il senso del vivere e del morire condivisi insieme come il pane quotidiano. Fa venire in mente una nostalgia, un modo altro di rapportarsi e di lavorare che forse ci potrebbe accompagnare dovunque, forse è il senso stesso del vivere: andare a Gerusalemme a fare ciò che abbiamo sempre sognato… E’ un privilegio, una grazia, poter fare il proprio lavoro in condizioni assolutamente nuove, dentro una realtà sconosciuta, quella di Betlemme, che pur sta rifacendo il percorso che ho iniziato molti anni fa nell’incontro con Comunione e Liberazione. È una terra viva quella che si delinea ai nostri occhi: non delle pietre ma una compagnia che dà significato alle pietre. Sorpresa e privilegio che pagherei per poter fare… “
E Marco Romeo, architetto pure lui, è chiamato a disegnare questa utopia e ci mostra con ironia i segni sulle carte perché noi capiamo che quello che si costruisce ha pur un progetto, ha una linea, un disegno studiato, un desiderio iniziale di trasformazione perché dove le travi sono cadute occorre riedificare con legno nuovo e dove non si odono parole occorre costruire un nuovo linguaggio. Insomma niente è improvvisato in Terrasanta, anche se vige una libertà dello spirito che si impone perfino agli architetti e che traccia prima che sulla carta dei segni permanenti nelle persone che accettano questa amicizia senza confini tra esperienze, le più varie sul piano ecclesiale e geografico… È questo popolo sui generis di Dio costituitosi un paio di millenni fa in quella strana provincia romana e poi andato ad gentes che oggi ritorna, dopo duemila anni a ripresentare il volto di un Cristo sempre giovane in una sorta di missione che apparterrà sempre alla chiesa. Credo quia absurdum: bisogna crederci, è proprio il cantiere dell’assurdo!
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