Il bambino-Dio venuto a salvarci da un destino di polli senza testa

Di Emanuele Boffi
15 Dicembre 2020
Abbiamo scambiato la salvezza con la salute. Ma la vita acquista un senso solo se è dedicata o, addirittura, sacrificata per qualcosa di più grande dell’esistenza stessa

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto Mario Negri di Milano e tra i più autorevoli scienziati italiani, ha detto il 25 novembre al Corriere della Sera che «bisogna considerare la malattia un fallimento». È una frase carica di conseguenze che non può passare inosservata. Se è un «fallimento» significa che c’è un responsabile. Chi è il responsabile? Può essere il medico o lo Stato o il malato stesso con i suoi comportamenti dissennati e poco salutari. In ogni caso, chiunque egli sia, per evitare il crac il responsabile della malattia andrà corretto, cambiato, perfino moralmente raddrizzato. E, aggiungeva Garattini, per raggiungere lo scopo occorre una «rivoluzione culturale che parta dalla scuola» dove «l’insegnamento della scienza» sia considerato «un’educazione alla vita».

La scienza come nuova religione: positivismo puro. Da che è iniziata la pandemia si fa ogni giorno più evidente lo smarrimento dell’uomo moderno che, da un lato, per usare l’espressione di Giorgio Agamben, «ha sostituito la salvezza con la salute» mettendo «la vita biologica» al posto «della vita eterna», e, dall’altro, ha rinchiuso in un angolo la fede in un Dio trascendente, come se essa fosse qualcosa di accessorio o, al più, consolatorio. Ad Atlantico, il politologo Pierre Manent ha illustrato la nostra attuale situazione con queste parole:

«In nome di un’interpretazione sempre più estensiva della laicità, la nostra società ha escluso la religione dai motivi legittimi di azione collettiva a tal punto che si limita a relegarla ai margini o in una sorta di clandestinità appena tollerata. In fin dei conti, l’unico motivo considerato legittimo di azioni umane, perché è l’unico incontestabile, è la paura di morire. Non c’è limite alla tirannia che può legittimarsi attraverso la protezione della vita di ognuno» (23 novembre).

Qui, secondo noi, sta la questione: in quella “tirannia della vita” che è anche il titolo di un saggio del matematico Olivier Rey di cui abbiamo scritto diffusamente sul nostro sito. Il libro di Rey mostra come, nel giro di qualche secolo, siano avvenuti grandi cambiamenti all’interno della società occidentale. Fino al XX secolo sui certificati di morte appariva ancora tra le motivazioni del decesso la «vecchiaia», termine ora scomparso. Sui dizionari francesi il vocabolo «vita» è passato dal significato di «unione dell’anima col corpo» ad «attività spontanea propria degli esseri organizzati».

Il ragionamento del matematico mostra come la progressiva emarginazione del sacro ha portato a ritenere l’esistenza un puro accadere biologico di cui sfugge il senso e di cui si può constatare il solo dato contingente ed effimero. Ma, appunto, in quest’aria di vetro in cui si percepisce il vuoto alle spalle con terrore d’ubriaco (Montale), l’uomo ha finito per idolatrare il solo aspetto materiale dell’esistenza, perdendo se stesso e scorrazzando per l’aia del mondo come quei «polli che possono continuare per un momento a correre, quando si è tagliata loro la testa». Se non c’è morte, ma solo “cause di morte” e se non c’è Dio, ma solo lo Stato o il sistema sanitario, il risultato non può essere che la recriminazione o la violenza contro chi ha provocato il «fallimento della malattia».

Per uscire dal labirinto l’unico filo d’Arianna, dice Rey, è riscoprire la nostra natura mortale, che è ciò che rende preziosa questa valle di lacrime. Non solo:

«È perché sappiamo che in ogni caso si muore (san Francesco parlava di “nostra sorella morte corporale”), che si diventa capaci, quando le circostanze lo esigono, di dare la propria vita».

Forse varrebbe la pena soffermarsi di più su questo e cioè sugli esempi di quei tanti che – anche in questo periodo di Covid – hanno mostrato, magari anche solo inconsapevolmente, che la vita acquista un senso solo se è dedicata o, addirittura, sacrificata per qualcosa di più grande dell’esistenza stessa. Il Natale che ci apprestiamo a festeggiare in difficili condizioni ci aiuti a farne memoria: persino un bambino Dio, nato in una grotta duemila anni fa, ha assunto spoglie mortali sacrificando se stesso non per la nostra salute, ma per la nostra salvezza.

Foto Ansa

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