Ichino (Pd): «Le pensioni di anzianità hanno innalzato il debito. Meglio seguire il modello europeo»

Di Redazione
05 Dicembre 2011
L'on. Ichino a Radio Tempi ha parlato dell'attesa riforma delle pensioni del governo Monti. Una riforma, non ancora presentata, che ha visto la secca opposizione di Cgil, Cisl e Uil: «Le pensioni di anzianità saranno un punto nodale della riforma. E' necessario che l'Italia si allinei agli altri paesi europei, i quali non ammettono un modello pensionistico che non tenga conto dell'età anagrafica»

Il ministro del lavoro Elsa Fornero ha dichiarato che i contenuti della riforma delle pensioni saranno resi noti tra pochi giorni. Intanto però le maggiori sigle sindacali si sono dette estremamente preoccupate dalle anticipazioni emerse in materia di previdenza. Per capire cosa sta succedendo Radio Tempi ha intervistato il senatore del Partito democratico Pietro Ichino, esperto di diritto del lavoro.

Senatore, Cgl, Cisl e Uil hanno espresso con fermezza il loro “no” alla riforma del sistema pensionistico proposta dal premier Mario Monti. Qual è la sua poszione in merito?
Innanzitutto è doveroso precisare che non si conoscono nel dettaglio i contenuti della riforma che il Ministro del lavoro Elsa Fornero sta per presentare. Tuttavia si può provare a ipotizzare quali saranno i punti nodali della riforma. Sappiamo che il  problema principale è rappresentato dalle pensioni di anzianità, pensioni che non richiedono un requisito di età anagrafica, ma esclusivamente di anzianità di servizio e di contribuzione. Allo stato attuale si può ottenere la pensione di anzianità con 40 anni di contribuzione, all’interno dei quali si possono inserire gli anni per il conseguimento della laurea e tutti gli altri riscatti eventuali. Questo tipo di modello non esiste in nessun altro paese europeo: fuori dai confini italiani l’età anagrafica costituisce sempre un requisito fondamentale per il calcolo della pensione d’anzianità.

Quali sono quindi i problemi legati alle pensioni di anzianità?
Sono essenzialmente tre. Il primo è di equilibrio tra le generazioni. Noi stiamo consegnando ai nostri figli un sistema pensionistico che li vedrà uscire dal mercato del lavoro tra i 68 e i 70 anni, con pensioni nettamente inferiori rispetto alle nostre. Dobbiamo chiederci se sia equo aumentare il debito pubblico che lasceremo in eredità per consentire alla generazione dei cinquantenni e sessantenni di oggi di andare in pensione a cinquantotto anni con un sistema retributivo che garantisce un criterio di pensionamento molto generoso. Forse questo sistema potrebbe avere ancora senso per i lavori usuranti, manuali e fisici, o nelle situazioni di mobilità ma come eccezione, non certo come regola.

Questo è solo il primo dei problemi.
Il secondo è legato alla politica europea. Come possiamo chiedere alla Germania e agli altri nostri partner europei di farsi carico della garanzia del nostro debito pubblico se non abbiamo prima allineato i parametri del nostro welfare ai loro? La terza questione riguarda la grossa incognita legata al mercato del lavoro. Abbiamo la necessità di ricominciare a crescere utilizzando al meglio tutte le risorse di cui disponiamo e che in questo momento ignoriamo o utilizziamo malissimo. Pensi per esempio agli investimenti stranieri, a cui non ci apriamo, o alla forza lavoro italiana, su cui non investiamo in alcun modo dato che paghiamo la gente per farla uscire presto dal mercato del lavoro. Il nostro tasso di partecipazione al mercato del lavoro nella fascia 55-65 anni è di uno su tre, contro uno su due di Germania e Inghilterra e due su tre di Svezia e Paesi Scandinavi. Chi va in pensione non lascia posto ai giovani, come erroneamente si pensa, ma sottrae risorse al sistema che non possono essere reinvestite in termini posti di lavoro. Il cinquantottenne che continua a lavorare produce ricchezza, consuma di più perché è più ricco, guadagna di più e non sottrae risorse. A sostegno di ciò ci dati evidenti che mostrano quanto i paesi dove si lavora più a lungo siano quelli con il più alto tasso di lavoro giovanile nella fascia tra i 18 e i 30 anni.

Ascolta l’intervista integrale a Pietro Ichino
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Quindi l’anomalia sta nel considerare ancora la possibilità della pensione di anzianità.
Si, come le ripeto siamo un’eccezione nel panorama europeo. In passato ci sono stati periodi in cui i dipendenti del pubblico impiego andavano in pensione anche con soli quindici anni di contributi e per questo motivo oggi siamo pieni di privilegiati che sono andati in pensione a 40-50 anni. E’ evidente che tutto ciò a contribuito all’innalzamento del debito pubblico.

Quali soluzioni proporebbe?
Un contributo di solidarietà a carico di questi privilegiati e un sistema pensionistico per i parlamentari che operi retroattivamente sul vitalizio maturato a loro credito. E’ necessario portare tutti al criterio contributivo stabilito dalla legge Dini del 1995. Non si tratta quindi di riformare ma di applicare alla generazione dei sessantenni di oggi lo stesso criterio che si applica ai più giovani e questo deve valere prima di tutto per i parlamentari, che devono dare il buon esempio.

All’interno del Pd ci sono posizioni contrastanti. Che aria tira?
All’interno di un grande partito la pluralità di opinioni è normale. La verità è l’obbligo di allinearci all’Europa sta mettendo un po’ sotto stress i vecchi equilibri all’interno di Pd e Pdl, costringendo i partiti a uscire dal provincialismo e a confrontarsi con quello che accade nel resto d’Europa. E’ normale che questo sposti il baricentro dei partiti all’interno dell’ala più riformista, ma mi sembra una nota positiva in questa fase nuova della politica italiana.

Come giudica il modello Marchionne?
Marchionne ha posto al centro del dibattito politico sindacale la questione cruciale, di cui io avevo parlato nel 2005 col mio libro A che cosa serve il sindacato. Noi abbiamo dei Contratti collettivi nazionali che disciplinano in modo minuzioso e intrusivo non solo i minimi di trattamento ma anche tutte le modalità di organizzazione del lavoro, di inquadramento professionale, di retribuzione. Rispetto a questo modello, che i nostri contratti collettivi hanno cristallizzato, ci sono altri modelli che non possiamo ignorare altrimenti ci chiudiamo all’innovazione, all’aumento di produttività e agli investimenti stranieri, di cui abbiamo molto bisogno. L’Italia dev’essere capace di attrarre gli investimenti stranieri ed essere aperta ai loro modelli di organizzazione il lavoro. Non voglio giudicare il piano di Marchionne: i sindacati hanno il diritto di valutare la situazione ma, in caso di dissenso tra i sindacati, non può esserci una paralisi. Chi rappresenta la maggioranza deve poter contrattare producendo effetti per gli altri, stesso dicasi per la minoranza che può rifiutarsi di firmare gli accordi senza perdere il diritto di esistere ed essere riconosciuta dall’azienda, mentre la legge attuale consente l’esclusione dalla rappresentanza sindacale. Con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 abbiamo fatto un importante passo avanti ma la strada è ancora lunga. In questa situazione di gravissima crisi economica non possiamo permetterci di chiudere le porte in faccia a una grande multinazionale che ci propone un investimento. Dobbiamo valutare l’offerta e giudicarla attraverso un sindacato che faccia il suo mestiere, valutando gli aspetti positivi e quelli negativi. Le cose vanno valutate nel concreto. Prenda il caso Torino: l’alternativa al modello Marchionne era la cassa integrazione per altri quattro anni, è questo che vogliamo? Se in passato avessimo aperto l’Italia ai giapponesi, agli americani e tedeschi avremmo avuto altri capitali a disposizione.

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