I pochi e coraggiosi pacifisti azeri
Non tutti in Azerbaigian condividono l’esaltazione nazionalista per la vittoria nella guerra del Nagorno Karabakh: una piccola minoranza di pacifisti, attivisti dei diritti umani, intellettuali e femministe insiste a considerare il conflitto una disgrazia, sia perché il suo esito militare rafforzerà la dittatura della famiglia Aliyev che da ventisette anni detiene tutto il potere nel paese, sia perché fossilizzerà l’ostilità fra i due popoli, azeri e armeni. Si tratta di dissidenti davvero coraggiosi, considerato che l’Azerbaigian è uno dei paesi più autoritari del mondo: è 121° su 162 paesi nella classifica dello Human Freedom Index (indice di libertà umana) promossa da cinque istituti internazionali e 168° su 180 paesi nella classifica del World Press Freedom Index (indice della libertà di stampa nel mondo) promosso da Reporters sans Frontières (l’Armenia contro cui le forze armate azere hanno combattuto si colloca al 54° posto nella classifica dell’indice di libertà umana e al 61° nella classifica della libertà di stampa nel mondo).
Rafforzare il governo azero
Quattro anni fa Giyas Ibrahimov fu arrestato insieme a un compagno dopo che avevano scritto con lo spray slogan politici su di una statua dell’ex presidente Heydar Aliyev, padre dell’attuale capo di Stato Ilham Aliyev. Subirono abusi fisici da parte della polizia, che li accusò di traffico di droga dopo aver nascosto alcuni grammi di eroina nei loro effetti personali. Ibrahimov fu condannato a dieci anni di carcere, di cui ne scontò due. È stato di nuovo arrestato e subito rilasciato subito dopo che sono riesplose le ostilità il 27 settembre scorso per alcuni messaggi pacifisti online da lui scritti. «Questa guerra ha fatto tanto per rafforzare le basi del governo autocratico dell’Azerbaigian», ha dichiarato al periodico online Eurasianet. «Le persone faranno causa comune col presente regime per almeno altri cinque anni, grazie all’efficacia della propaganda utilizzata durante e dopo la guerra».
Una battaglia perdente
Arzu Geybulla (o Geybullayeva) è una giornalista azera che vive in esilio facendo la spola fra Washington e Istanbul, dove collabora col periodico Agos, il giornale fondato dal giornalista armeno di passaporto turco Hrant Dink, assassinato nel 2007. Dopo aver rilasciato un’intervista dove confermava l’alta probabilità che combattenti siriani jihadisti partecipassero dalla parte azera alla guerra del Nagorno Karabakh, ha ricevuto minacce dalla madrepatria. «Quando cerchi di chiarire la tua posizione, ti attaccano ancora più duramente», ha dichiarato. «Quando l’argomento è l’Armenia o il Nagorno Karabakh, nel momento in cui pronunci un’opinione diversa da quella dominante diventi un traditore. Anch’io ho patito attacchi. Faccio parte di un insieme di attivisti armeni e azeri che all’inizio di ottobre hanno firmato una petizione che era un appello alla pace, e come risultato sono stata definita “traditrice” sui social media e la mia famiglia ha ricevuto una telefonata da altri parenti che dicevano che dovevo vergognarmi di aver firmato un appello “mentre il nostro esercito sta combattendo”». L’appello a cui si riferisce la Gebullayeva è stato diffuso il 6 ottobre scorso, quando la guerra era in corso da 10 giorni, ed è stato firmato non solo da attivisti armeni e azeri in parte residenti nei rispettivi paesi e in parte trasferiti all’estero, ma anche da militanti politici e dei diritti umani di molte altre nazionalità, compresi una trentina di turchi. In esso si legge fra le altre cose: «La prima vittima della guerra non è la verità oggettiva, ma le vite delle persone reali, dei bambini che essa distrugge. Sta diventando una battaglia perdente per l’intero Caucaso meridionale. Se non vi riguarda adesso, la guerra o le sue conseguenze vi raggiungeranno domani. La guerra non risolverà mai il conflitto. Solamente ci lascerà dentro a un circolo più oscuro e più vizioso di guerre ricorrenti e di rivendicazioni irrisolte. Difendere la pace non è una posizione neutrale. Rigettiamo le posizioni improntate al militarismo, alimentate dalle narrative di guerra, e cerchiamo invece cammini per costruire la pace. Questa guerra richiama le tragedie e le ferite del passato. Non fa nulla per guarirle, ma solo ne crea delle nuove».
Vendetta di una nazione
Hamida Giyasbayli è una ricercatrice azera dell’università di Innsbruck impegnata da dieci anni nel dialogo armeno-azero, e afferma che la guerra ha messo fine alle speranze di costruire una cultura di pace fra armeni e azeri: «La prima e più difficile cosa che ho sperimentato è stata una condizione di profondo isolamento. I miei ex colleghi hanno appoggiato la guerra, l’hanno giustificata come giusta vendetta di una nazione. Non mi aspettavo che solo pochi di noi sarebbero rimasti fedeli ai nostri princìpi. Siamo stati bersaglio di attacchi, cosa prevedibile ma comunque molto dolorosa. Per il momento, non ho più la forza per continuare a lavorare per la pace».
Un compito proibitivo
Bahruz Samadov, ricercatore azero all’università di Praga, spiega perché il compito dei pacifisti, improbo già prima della guerra, è diventato proibitivo: «Una società divisa e frammentata si è improvvisamente ritrovata unita attraverso il potere dell’azione militare. Il governo, l’opposizione e la maggioranza apolitica oggi sposano la stessa narrativa dominante di un dovere nazionale di restituire al paese le terre perdute. Nel frattempo, le voci che invocano la pace non sono mai state più emarginate. (…) la perdita del Nagorno Karabakh è il trauma primordiale dell’identità post-sovietica azera. L’intera identità nazionale del paese è stata costruita attorno a questa perdita – e come tale, ogni escalation militare diffonde la speranza presso il pubblico di un ritorno delle terre perdute. Questa è la narrativa dominante che sta alla base dell’Azerbaigian moderno. La logica della narrativa dominante è semplice: il Nagorno Karabakh è stato una parte primordiale dell’Azerbaigian e l’Armenia l’ha rubata con l’aiuto della Russia. Con questa logica, quella per il Nagorno Karabakh è necessariamente una guerra di liberazione e non, come la vedono gli attuali abitanti della regione, una guerra di occupazione. Narrazioni alternative, come quella favorevole a una risoluzione pacifica del conflitto e a un dialogo a lungo termine, sono considerate inefficaci e ingannevoli e sono state escluse del dibattito pubblico».
Foto Ansa
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