
I paesi asiatici e la crisi terrorismo
Pakistan
Il paese è pesantemente influenzato dall’estremismo islamico e il governo, in mano ai militari, non può ignorarlo. Emblematico il tentativo del generale Musharraf, fallito dopo le violente proteste degli islamici, di modificare la legislazione sulle accuse per bestemmia, un crimine punibile con la pena capitale, spesso strumento d’intimidazione o peggio d’eliminazione degli avversari dell’estremismo. D’altra parte i militari utilizzano il fondamentalismo per continuare la lunga guerra con l’India per il controllo del Kashmir, un conflitto di cui, secondo fonti dell’intelligence indiano, proprio Musharraf pianificò la riapertura nel 1999. Palese è poi il ruolo del servizio segreto pachistano (Isi), nell’appoggio ai talebani e alle madrasse (scuole coraniche dove si addestra l’internazionale del terrorismo). L’aiuto garantito agli Usa, fortemente osteggiato da gran parte della popolazione, trova le sue ragioni in scenari di politica estera a largo raggio. Il Pakistan è stato da sempre alleato degli Stati Uniti (fin dai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan), tuttavia i legami con Washington si sono raffreddati con il cambiare degli equilibri internazionali, soprattutto dopo l’appoggio pachistano alle milizie islamiche in Kashmir e le voci di un riavvicinamento tra Usa e India (anche in funzione anti-cinese). In seguito, la corsa agli armamenti nucleari del 1998 ha portato gli Stati Uniti a varare misure d’embargo nel campo delle tecnologie compatibili con l’uso militare. Se si considera che l’economia pachistana è già gravemente danneggiata dal confronto con il colosso indiano, si capisce che l’appoggio a Bush di Musharraf vuole scongiurare il rischio di un ulteriore isolamento internazionale del paese, anche se questo significa animare i fantasmi di una guerra civile. Evidentemente il generale è convinto di poter controllare la situazione interna e potrebbe addirittura approfittarne per sciogliersi dal pesante fardello del controllo dei mullah. Intanto gli Usa hanno messo fine all’embargo…
India
Se in questo momento il Pakistan rappresenta il principale referente degli americani, non va trascurato il ruolo che potrebbe giocare l’India qualora il generale Musharraf si venisse a trovare in una situazione insostenibile e il Pakistan si volgesse contro l’America. Per il momento, sembra che i servizi segreti indiani stiano collaborando con gli Usa fornendo notizie dettagliate sulle formazioni e sui campi d’addestramento delle milizie islamiche in Pakistan e Afghanistan. I rapporti tra USA e India non sono mai stati particolarmente amichevoli, ma l’India ha tutto da guadagnare da un Pakistan in difficoltà, sempre tenendo conto della situazione in Kashmir. Intanto, anche per l’India, fine dell’embargo sulla tecnologia militare deciso dagli Usa nel 1998.
Cina
Il governo cinese ha espresso solidarietà alla lotta americana contro il terrorismo, ma per una cooperazione attiva chiede il chiaro impegno Usa contro le forze “terroriste e separatiste”. Una definizione che può comprendere Taiwan, considerata dalla Cina una provincia ribelle, e il Tibet. È probabile che Pechino cerchi di trarre tutto il vantaggio possibile dalla situazione di difficoltà dell’America, fino ad avviare attività espansionistiche. D’altra parte i problemi con i separatisti islamici d’etnia uigura, nella provincia occidentale dello Xinjiang, rendono un attacco al terrorismo internazionale gradito al regime. Anche se è probabile che Pechino preferisca gestire a suo modo la situazione interna, senza ricorrere ad impegni internazionali.
Malaysia
Il paese, dove la maggioranza islamica coincide con l’etnia malese, è guidato da oltre vent’anni dal Dott. Mohammad Mahathir, leader di un partito laico. Mahathir ha sempre seguito una linea marcatamente anti-americana, ma negli anni recenti si è trovato a fronteggiare l’attacco della rinascita islamica. Il partito islamico Pas ha continuato a guadagnare terreno durante le ultime elezioni e oggi le sue prese di posizione integraliste cominciano a preoccupare l’opposizione, guidata dalla facoltosa componente d’origine cinese, che probabilmente tornerà ad appoggiare Mahathir piuttosto che rischiare di vivere sotto la sharia. Cresce l’influenza della militanza islamica: sono in aumento gli studenti malesi “in visita” alle madrasse pakistane, i volontari coinvolti negli scontri religiosi in Indonesia e nelle lotte dei separatisti islamici delle Filippine. C’è da aspettarsi che Mahathir approfitti della situazione per ridimensionare i propri avversari politici. Tuttavia il leader ha più di settant’anni e non è chiaro, dopo di lui, quale potrà essere il futuro della Malaysia.
Indonesia
È il paese con la più larga popolazione islamica, in preda a forti crisi dopo il crollo del regime di Suharto. Almeno due i conflitti interni legati al fondamentalismo: gli indipendentisti del Gam nella provincia di Aceh e la Laskar Jihad nel conflitto etnico-religioso delle isole Molucche, contro i cristiani. A questi vanno aggiunti i ricorrenti scontri etnici nel Borneo tra immigrati di fede islamica e aborigeni cristiani o animisti. E i frequenti attentati contro chiese e cristiani nelle maggiori città del paese. La crisi di Timor ha raffreddato i rapporti tra il governo, ma soprattutto l’esercito, e gli Usa. Il governo e le forze armate indonesiane non hanno mai mostrato alcun fervore islamico, tanto che la stessa Laskar Jihad, rivolgendosi a Megawati Sukarnoputri perché non aiutasse gli americani, ha dovuto citare non Allah bensì l’esempio del di lei padre presidente Sukarno, anti-americano duro e puro ma pur sempre laicissimo. Megawati ha già provveduto ad offrire pronto sostegno agli Usa e probabilmente vi saranno nuove collaborazioni, soprattutto una maggiore comprensione da parte del Fondo Monetario Internazionale.
Singapore
L’indipendenza dalla Malaysia nasce dalla ribellione della comunità etnica cinese per sottrarsi al controllo dell’etnia malese, ma ancora oggi il governo deve tenere in debito conto lo stato d’animo dei propri cittadini di religione islamica, soprattutto i riottosi vicini. Il paese conta probabilmente sul proprio status di “Svizzera del Sudest asiatico” per navigare al meglio attraverso la tempesta. In effetti già si sono diffuse voci che accusano le banche locali di ripulire il denaro di Bin Laden. Il governo ha immediatamente provveduto a smentire categoricamente.
Filippine
Il paese è tormentato dalle lotte dei gruppi separatisti islamici nelle isole meridionali di Mindanao. Negli anni recenti è balzato agli onori delle cronache il gruppo Abu Sayaf, sospettato di avere contatti con l’organizzazione di bin Laden ma che ha un carattere sostanzialmente malavitoso, senza una strategia politica particolarmente definita. Nel frattempo gli altri movimenti indipendentisti più tradizionali, come il Milf (Fronte di Liberazione Islamico dei Moro), hanno stretto accordi con il governo di Manila per una soluzione delle vertenze. Non è chiaro ora come potrà evolversi la questione. Per il momento il presidente Arroyo ha garantito pieno appoggio agli Usa.
Corea del Nord e Corea del Sud
Fino ad oggi sono rimaste fuori dal campo. La Corea del Sud, legata da trattati di mutuo soccorso con gli Usa, ha già dichiarato che offrirà loro supporto logistico, come al tempo della guerra nel Golfo, ma senza inviare truppe da combattimento. La Corea del Nord al momento non ha mostrato di volersi coinvolgere sebbene, secondo il settimanale giapponese Shukan Gendai, mantenga rapporti con l’organizzazione di Bin Laden.
Giappone
Il Giappone si è da subito dichiarato pronto ad offrire ogni appoggio agli Stati Uniti, con cui ha un trattato d’alleanza. Non è chiaro però in quale forma, considerando che la costituzione giapponese autorizza l’uso delle forze armate solo a difesa del territorio nazionale. La discussione su un’eventuale modifica di questa norma procede da anni e ha ritrovato fervore in questi ultimi giorni. Va però detto che sarebbe accolta con forte opposizione, in particolare dalla Cina, in quanto metterebbe a grave rischio gli equilibri logistici dell’area. Inoltre l’opposizione ad un intervento armato è diffusa anche in larga parte della popolazione nipponica. Intanto unità della marina giapponese sono già in rotta verso l’oceano indiano, ufficialmente con scopi di “ricerca” (attività pacifica autorizzata dall’attuale legislazione).
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