
I MUSULMANI ESULTANO PER L’ESPULSIONE DELL’IMAM DI TORINO. «ORA STIAMO MEGLIO»
orino. Un po’ di paura, qualche distinguo, ma nessuna nostalgia. A un mese dall’espulsione di Bouriki Bouchta, il marocchino che si era autoproclamato ‘imam’ di Porta Palazzo (il quartiere casbah della città), la comunità islamica torinese non si straccia le vesti per quel suo figlio rispedito in Marocco in applicazione delle norme anti-terrorismo emanate dal ministro Pisanu. Anzi, sembra quasi tirare un sospiro di sollievo. L’uomo riusciva a lodare Bin Laden («un fratello capace di tenere in scacco l’America» disse dopo l’11 settembre) e a miagolare parole di pace come il più candido dei boy scout. Un ambiguità in grado di fare breccia nei cuori dell’amministrazione cittadina di centro-sinistra, che lo ha spesso considerato un interlocutore credibile. Per il Viminale, il sedicente imam proprietario di tre macellerie e gestore di tre moschee, era un predicatore della guerra santa, un reclutatore di terroristi. Eppure, quando tra il 5 e il 6 settembre scattò l’espulsione, dalla sezione provinciale di Rifondazione Comunista si parlò di «un atto che poteva alterare il clima sociale». Anche i no global cittadini insorsero: «L’imam era il rappresentante reale dei maghrebini.».
è davvero così? Un’immersione nel mare multiculturale di Porta Palazzo aiuta a capire. è lì che il controllo del marocchino era più serrato. Lì serpeggia ancora il timore tra i garzoni delle macellerie. Pochissimi parlano, quasi tutti per rinviarti a qualcun altro: «Torna dopo, parla con il padrone». Ma se si scava, si trovano ad esempio i ‘Giovani Musulmani Italiani’, che sul loro sito internet si dichiarano «figli di questa società». Parliamo con Fatima H., un’attivista, studentessa di Scienze internazionali all’Università di Torino. «Bouchta rappresentava solo se stesso e i suoi amici. Però ai media piaceva presentarlo come l’imam di Torino». Lui in questo equivoco sguazzava: «A noi giovani i suoi proclami creavano dispiacere e imbarazzo. Ci rendevano sospetti ai nostri stessi amici italiani». Agli islamici torinesi non manca la sua guida? «Credo proprio che non manchi a nessuno». «D’accordo – le fa eco lo scrittore iracheno Younis Tawfik – Bouchta in un certo senso l’ha inventato Bruno Vespa invitandolo al suo show, amministratori ingenui lo hanno legittimato, ma la responsabilità maggiore è della nostra stessa comunità, che non ha mai voluto prendere una posizione chiara contro persone e idee che sono un danno mortale per l’islam e per i musulmani».
Qualcuno, per la verità, ci aveva provato ad isolarlo. Sued Benkdhim è una mediatrice culturale marocchina che vive in Italia da diciannove anni. «Nel 1998 e per due anni – racconta – Bouchta ha emesso una fatwa contro di me perché lo avevo accusato di integralismo. Ho dovuto cambiare casa e luogo di lavoro per tre volte. Poi, quando il re del Marocco mi ha premiata per il mio lavoro sui giovani migranti, l”imam’ ha pensato di lasciarmi in pace». Il «rappresentante reale dei maghrebini», secondo gli investigatori, aizzava i giovani a obbligare le madri a svegliarsi all’alba per pregare e a picchiarle se non rispettavano i precetti del Corano. «Il cosiddetto imam – osserva Sherif El Se baie, giornalista egiziano – non era un autentico punto di riferimento. E tuttavia il modo in cui è avvenuta l’espulsione mi lascia perplesso: determinate procedure legali andrebbero rispettate. Non gli hanno dato neanche il tempo di salutare la famiglia». è ancora più duro Ibrahim Abu Ma’him, il responsabile della comunità di San Salvario, altro quartiere simbolo della difficile convivenza tra residenti e comunità straniere. La cacciata di Bouchta? «Uno scandalo», risponde. Intanto il 5 ottobre è iniziato il primo ramadan del dopo Bouchta. E per la prima volta dopo diversi anni, alla grande preghiera che conclude i 28 giorni del tradizionale digiuno dall’alba al tramonto parteciperanno tutte le moschee cittadine. Un caso?
Daniele Gigli e Mauro Pianta
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