I furbetti dei derivati

Di Mengoli Stefano
10 Gennaio 2008
I famigerati swap, che dovevano ripianare i conti di Comuni e Regioni e invecehanno finito per ingigantirne i "buchi"

«Un quadro al museo ascolta più stupidaggini di chiunque altro», amava ripetere Edmond de Goncourt, che evidentemente non ha mai avuto la (s)fortuna di imbattersi in un dibattito televisivo. Se tizzoni politici, lato A e B delle bellezze in gara per Miss Italia e discussioni morbose su figlicidi continuano instancabilmente a imperversare nei talk show, un’analisi dello spazio dedicato ai fenomeni di attualità sembra far emergere una nuova attenzione degli italiani verso gli “scandali finanziari”. Se questo elemento non può che essere visto con favore, la consapevolezza che le grandi partite del potere si giocano oramai più nell’ambito della finanza che in quello della politica e l’ignoranza che per motivi storici da sempre contraddistingue il nostro popolo su tali questioni costituiscono motivo di grande inquietudine.
La sconsolata affermazione «è necessario che tutto cambi affinché tutto rimanga com’è» di gattopardiana memoria appare l’unico sentimento ultimo in grado di emergere da una lettura attenta dei quotidiani. Un esempio? Che fine ha fatto Cesare Geronzi dopo la condanna in primo grado nel caso Italcase, dopo l’accusa di bancarotta e usura nel crack Parmalat riguardo alla famosa compravendita della Ciappazzi (nome che richiama le mitiche Canistracci Oil di Renato Pozzetto nel film Mia moglie è una strega) e dopo l’imputazione nel processo Eurolat del crack Cirio? È stato eletto con risultato bulgaro presidente (del Consiglio di sorveglianza) di Mediobanca, istituto da sempre considerato perno del sistema finanziario italiano. A preoccupare non è certo il giudizio saccente del Financial Times, che apostrofa l’elezione di Geronzi come un «ritorno al medioevo» che «farebbe rivoltare Cuccia nella tomba»: gli amici d’Oltremanica non sembrano in realtà immuni da simili scandali (sebbene molto diversi siano gli epiloghi di queste vicende nei paesi anglosassoni: a seguito della madre di tutte le bancarotte, ad esempio, l’ex amministratore delegato di Enron, Jeffrey Skilling, non solo ha perso il lavoro, ma è stato condannato a oltre 24 anni di carcere). Abdicare alla comprensione di siffatti fenomeni, però, non può che andare a vantaggio dei soliti noti e l’amore per la realtà non lo consente. Al fine di suggerire possibili soluzioni, occorre cogliere tratti comuni alle diverse vicende che consentano di evidenziare criticità e fornire utili spunti di riflessione. In tal senso, un esempio adeguato perviene dal ragguardevole incremento dell’indebitamento accumulato, sotto forma di obbligazioni, dagli enti locali italiani. Indebitamento che, secondo dati della Banca d’Italia, nel periodo 1999-2005 sarebbe più che decuplicato (da 2,3 a 25,1 miliardi di euro). “Tutta colpa dei derivati!” è la voce rimbalzata da più parti. Ammonta infatti a ben 10,5 miliardi di euro il capitale “swappato” solamente dalle Regioni. Ma vediamo di capire di che si tratta.

Una rete di sicurezza
Cos’è un derivato? Un derivato è un contratto il cui valore, come dice la parola stessa, deriva dal valore di un sottostante. Questi strumenti nascono per rispondere all’esigenza di ridurre i rischi a cui si può andare incontro. Pensate al bagnino di Finale Ligure che deve fronteggiare ogni anno il problema del brutto tempo nel mese di agosto. Se quest’anno pioverà più di quanto previsto, probabilmente otterrà un profitto inferiore, in quanto i clienti potranno usufruire per meno giornate dei suoi servizi. Al contrario, se pioverà meno, la situazione verrà a ribaltarsi. Se tale rischio, come normalmente avviene, risulta “indesiderato”, si potrebbe in realtà pensare di trasferirlo ad un’altra parte, normalmente una banca o un’assicurazione, in grado di gestirlo meglio. Il contratto tra la banca e il bagnino potrebbe prevedere, ad esempio, nel caso in cui piovesse di più, l’incasso di una certa somma di denaro da parte di quest’ultimo, in modo da coprire almeno parzialmente dalla contingenza di un profitto inferiore; nel caso in cui, al contrario, l’aumento delle precipitazioni non si verificasse, l’accordo obbligherebbe invece il bagnino al pagamento della stessa somma. Il rischio di percepire un incasso modesto può quindi essere coperto tramite l’uso di weather derivatives (derivati sul tempo atmosferico).

Ma quanto siete disposti a pagare?
Un semplice contratto, nulla di più, nulla di meno. Ma i derivati presentano problemi. Il primo: quanto sareste disposti a pagare per concludere un simile contratto? Difficile dirlo. Vi garantisco che per rispondere adeguatamente alla domanda è necessario aver frequentato un master in finanza. Ne consegue che anche a posteriori è difficile dimostrare l’eventuale “truffa”, non trattandosi necessariamente di frode se nell’anno in corso il contraente non ha ricevuto nulla. Potrebbe infatti semplicemente essere piovuto poco. Anche se questo fatto viene normalmente ignorato dai media, il giudizio sull’equità deve dunque fondarsi su quanto si è pagato, o ancor meglio su quanto rischio si è trasferito, date le condizioni stabilite da contratto e non sul semplice risultato a scadenza. Dal problema della difficoltà di valutazione, ne nasce un altro strettamente connesso: firmereste un accordo simile con il gatto e la volpe venuti appositamente dalla City di Londra? Ovviamente no. Eppure questo è il paese di Pinocchio e certi personaggi riscuotono sempre un certo successo.

La logica dell’affare
Ma cos’è in particolare uno swap e cosa è accaduto nel caso degli enti locali? In inglese swap significa “scambio”. Nel caso base (plain vanilla) due controparti con opposte esigenze con riferimento ad esempio ai tassi di interesse (interest rate swap) si scambiano interessi fissi contro interessi variabili. Nel caso degli swap venduti agli enti locali l’idea è sostanzialmente la seguente. L’obiettivo del politico è creare consenso, e il consenso è più facile crearlo spendendo soldi, assumendo personale che poi ricambierà col proprio voto, facendo asili, eccetera. Il problema diventa quindi trovare finanziamenti adeguati. Il politico rimane in carica quattro, otto, al massimo dodici anni senza sapere se e per quanto verrà rieletto. Il suo obiettivo dunque è necessariamente miope, ossia orientato al breve periodo: tenderà a preferire finanziamenti che pagano interessi contenuti nel breve periodo a scapito di interessi maggiori nel lungo. E qui sta l’idea. Se l’ente locale ha ad esempio contratto un mutuo a tasso fisso, diciamo al 5 per cento, con la banca A (figura a nello schema qui sotto), la banca B (che può anche essere la stessa banca A) potrebbe proporgli di entrare in uno swap ove l’ente locale riceverà il 5 per cento fisso, che verrà poi diligentemente girato ad A, in cambio del pagamento di un tasso variabile a B (figura b). È evidente che in questo modo il finanziamento diviene a tasso variabile, e non a caso la banca propone un contratto con queste caratteristiche quando i tassi variabili a breve sono più contenuti (a scapito di quelli a lungo futuri, probabilmente più elevati).

Non esistono pasti gratis
L’effetto è che gli interessi pagati dall’ente nei primi anni si riducono improvvisamente, formandosi una “riserva” di cassa inattesa (differenza tra interesse fisso e interesse variabile) che il sindaco di turno utilizzerà per assumere la segretaria belloccia, prendere l’autista personale e, con i soldi rimanenti, eventualmente fare asili. Peccato che, poiché se esiste una regola sempre valida in finanza è sicuramente quella secondo cui non esistono free lunches, ossia “pasti gratis” (diffidate quindi da chi sostiene di “guadagnare sempre in borsa”), tutto questo si traduce in maggiori interessi nel futuro (i tassi variabili, infatti, a lungo termine saranno necessariamente più alti). Interessi che comunque non dovrà fronteggiare il sindaco di cui sopra, ma le amministrazioni che gli succederanno.
E fin qui, per quanto riguarda la banca, nulla di illegale (forse immorale?), se non fosse che la difficoltà legata alla valutazione e il conflitto di interessi dei funzionari consente alla stessa di “strappare” elevati profitti. Peraltro non è raro che nel sottoscrivere l’accordo l’intermediario riconosca persino somme iniziali (up-front) all’ente in cambio di assunzioni di rischio, spesso nemmeno percepite, che consistono in vere e proprie scommesse legate all’andamento futuro dei tassi (altri derivati).
Ma la questione più interessante, trascurata nei dibattiti, è rappresentata dal rischio fallimento (meglio sarebbe dire di credito). Alcuni tecnicismi sono ora d’obbligo ma ritengo possa valerne la pena. Agli enti locali è concesso di emettere debiti bullet, ossia debiti che pagano interessi periodicamente e che rimborsano il capitale in un’unica soluzione alla scadenza. Al fine di evitare che l’ente sia impreparato, ad esempio fra 10 o 20 anni, a pagare questa somma che generalmente rappresenta la quota più consistente del finanziamento, lo Stato impone che l’amministrazione accantoni anche una quota (capitale) gradualmente durante la vita del finanziamento. Tali somme, o titoli poi acquistati, vanno ad alimentare un fondo (sinking fund) destinato al rimborso alla scadenza. E qui viene il bello. Sebbene il fondo venga gestito dalla banca che stabilirà quali titoli inserire nel portafoglio, il rischio fallimento continua a ricadere sull’ente. L’unico vincolo di legge imposto è che l’intermediario inserisca obbligazioni emesse da società o enti pubblici appartenenti all’Unione Europea. La Regione Campania ha ad esempio al momento nel fondo un’obbligazione emessa dalla Regione Lombardia. Diviene evidente l’elevato rischio di “effetto domino”. L’eventuale fallimento della Lombardia, o anche solamente un abbassamento del suo rating, infatti, genererebbe probabilmente il fallimento, o l’abbassamento del rating della Campania, poiché la diminuzione di valore delle obbligazioni nel portafoglio di quest’ultima abbatterebbe il valore delle somme accantonate.
Ma l’aspetto più rilevante è che mentre il rischio, come appena menzionato, rimane accollato all’ente, il rendimento della banca, per motivi un po’ complessi da illustrare, viene spesso a dipendere dal livello delle cedole (interessi) pagate dalle obbligazioni inserite nel fondo. E poiché più un’obbligazione è rischiosa più elargisce cedole elevate, in quanto il risparmiatore per sottoscriverle richiede un maggior premio, la banca avrà interesse a inserire nel portafoglio titoli molto rischiosi, con la consapevolezza che il rischio fallimento rimane comunque accollato all’Ente. Si verifica quindi una situazione paradossale in cui l’intermediario è incentivato a selezionare obbligazioni che possono essere altamente rischiose (come i boc emessi dal Comune di Taranto o le obbligazioni Alitalia, tanto per capirci) per ricevere in cambio cedole più consistenti, ma allo stesso tempo non dovrà sopportare il rischio di queste operazioni, che rimane accollato all’ente (fatta eccezione per il rischio di default dell’ente stesso). Se tutto ciò non fosse già di per sé motivo di preoccupazione si aggiunga che le banche di investimento, al fine di “strappare” maggiori contratti, perdipiù spesso non equi, assumono ex funzionari pubblici, parenti e amici degli amministratori locali in questione.

Come uscire dalla spirale
Alquanto altisonanti sono i nomi degli intermediari coinvolti. Il maggior gruppo bancario italiano è stato recentemente sanzionato per non corretta prestazione di servizi d’investimento e il suo principale esponente è stato multato per 20 mila euro. Rapportando tale cifra al suo compenso annuale, tale valore risulta molto al di sotto dell’uno per cento: è quindi evidente l’inefficacia della legge nel dissuadere dall’assunzione di simili comportamenti. In ogni caso anche se così non fosse, la notoria lentezza dei processi e la mancanza di specializzazione dei giudici in materie economico-finanziarie rappresenterebbero comunque un ostacolo arduo da superare per un sistema che possa realmente definirsi efficiente. Nemmeno la stampa, alquanto poco indipendente in Italia, e il potere politico, spesso ricattabile dallo stesso establishment finanziario (si pensi all’indebitamento degli enti locali), potrebbero probabilmente fornire un aiuto in questo senso.
Da dove ri-partire allora? Alcuni propongono soluzioni innovative. Ad esempio creare una task force a livello nazionale di esperti per acquistare risorse finanziarie “all’ingrosso” da mettere poi a disposizione degli enti locali. Altri punterebbero sul contenimento della scarsa trasparenza di cui ampiamente godono i politici italiani. In America, ad esempio, all’entrata di alcune città invece che segnalare tramite cartelli luminosi le aree in cui non è possibile tran-sitare si utilizzano gli stessi per pubblicizzare il debito pro-capite dei cittadini di quella circoscrizione (è evidente che l’intento perseguito è monitorare continuamente l’amministrazione locale). Ma sarebbero adeguate queste o analoghe iniziative? In parte sicuramente sì, sebbene è piuttosto forte il dubbio che esse siano sufficienti a dissuadere dal perseguimento di comportamenti opportunistici. Chi di noi basa le proprie scelte elettorali osservando la variazione del rapporto debito/Pil dell’ultimo governo? Nel nostro paese l’economia è considerata subalterna alla nobile arte della politica. Ma in realtà, ben poco della politica sembra essere rimasto nobile e lo stesso sembra potersi affermare anche con riferimento alle banche, che se prima potevano essere percepite come soggetti ad elevata reputazione, ora tale giudizio si sta venendo progressivamente a deteriorare (si veda l’ultimo rapporto Ipsos-Acri).

Il gatto, la volpe e l’ignoranza
Comunque una via efficace da percorrere in realtà sembrerebbe esserci. Parafrasando la morale della favola collodiana, si può dire infatti che il terreno fertile per questo tipo di scandali, ovunque accadano e chiunque siano gatti e volpi di turno, è sempre l’ignoranza finanziaria. L’evoluzione del rapporto tra gli intermediari e i loro clienti, un tempo basato sulla “fiducia” e oggi invece sempre più regolato “da contratto”, non fa che evidenziare l’esigenza di un’emancipazione culturale dell’italiano medio. Perciò qualsiasi intervento di riforma normativa (si pensi ad esempio all’introduzione della Mifid) che prescindesse dall’avvio di una diffusa alfabetizzazione finanziaria risulterebbe probabilmente di scarsa efficacia. Al tempo stesso, vista l’incompatibilità di questo obiettivo con gli interessi dei gruppi di potere, per le ragioni sopra esposte, è evidente come questo processo non possa che trovare impulso dal basso.   
*professore di Finanza aziendale
all’Università di Bologna

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