La dignità del “salao”
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Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) e fa parte della serie “Idee per respirare”
«A tanti anni di distanza è un testo che mi parla ancora», dice Fausto Bertinotti a Tempi. Stiamo discutendo con lui de Il vecchio e il mare, il libro grazie al quale Ernest Hemingway vinse prima il Pulitzer (1953) e poi il Premio Nobel (1954). La storia è nota e rapidamente riassumibile: Cuba, un anziano pescatore di nome Santiago da ottantaquattro giorni non tira fuori un pesce dall’acqua. È salao, sfortunato, jettatore, maledetto, dicono al villaggio, tanto che i genitori di Manolin, il ragazzo che è solito accompagnarlo, gli proibiscono di stare con lui. Santiago esce da solo in mare e qualcosa s’aggancia all’amo: è un gigantesco marlin, con il quale ingaggia un’epica battaglia lunga tre giorni e tre notti, finché lo uccide e lo lega ad un lato della barca. Ma il rientro diventa una via crucis, con i pescecani che fanno a brandelli il marlin, lasciando solo l’ombra di uno scheletro. Arrivato a riva, Santiago troverà un po’ di conforto solo nell’affetto di Manolin.
[pubblicita_articolo]Bertinotti, cosa le piace de Il vecchio e il mare? «Mi piace il fatto che parla di una sconfitta e, come lei sa, io di sconfitte me ne intendo», dice ridendo. «Hemingway entrò con prepotenza nella mia vita verso i vent’anni. Le mie letture erano a un bivio. Da un lato, i grandi autori americani come Faulkner e Steinbeck, dall’altro gli europei, come Joyce, Kafka, Proust. Hemingway si inserì come un cuneo tra questi due argini, sconvolgendomi per la sua scrittura semplice e diretta, giornalistica, eppure rocciosa nella sua inaspettata profondità. Ecco, mi colpì questo: pur con uno stile poco letterario e quasi da reportage, Hemingway sapeva raggiungere fin nel midollo temi esistenziali che ci mettono faccia a faccia col destino».
Mai abbandonare la missione
Il racconto apparve per la prima volta su Life nel 1952 e concentra in poche pagine «un’esplorazione a tutto campo del destino umano. C’è dentro tutto: il cosmo, il mare, la lotta, l’avversario, il nemico. E poi, come dicevo, la sconfitta». Cosa intende? «Iniziamo col chiarire cosa non intendo. Do alla parola sconfitta non il senso corrente di esito di una competizione o di una concorrenza. Così come non lego a questa parola la fine di una storia. Per me, e questo è quel che mi suscita la lettura del romanzo, la sconfitta è il segno di una promessa. Dunque, come tale non è mai definitiva ma apre a qualcosa d’altro. Una sconfitta diventa definitiva solo se chi la subisce abbandona la sua missione, la sua vocazione. Ma chi, pur subendola, rimane fedele al suo intento, in realtà mantiene tutta la sua dignità e grandezza».
Incontro e scontro
Cerchiamo di spiegarci: «Sconfitta e vittoria fanno parte della vita, fanno parte del destino. La differenza non sta nell’esito, ma nel modo in cui si accetta e si sceglie di combattere e rispettare le avversità e gli avversari che il destino ci pone innanzi». Calato nel racconto, significa che «il vecchio e il marlin hanno scelto di contendere. La vittoria o la sconfitta sono nel novero delle opzioni possibili. I due si rispettano: non sono nemici, ma avversari. Santiago descrive il marlin come “bello e calmo”. È un suo fratello, cui si sente legato dal fatto che il destino in cui tutti siamo immersi – rappresentato dal mare – li ha fatti incontrare e scontrare».
Una terrena resurrezione
E gli squali? Chi sono gli squali? «Non sono gli avversari, sono i nemici. Non sono gli “altri da te”, sono i parassiti, i traditori, coloro che guadagnano la preda senza combattere, senza contesa, senza rispetto per l’avversario. E lo fanno senza remore, senza morale. Distruggono e, fatto di per sé significativo, lo fanno come inconsciamente, senza percezione di quello che fin qui abbiamo chiamato destino. Non sanno, non sanno niente, gli squali». Eppure, prosegue l’ex presidente della Camera, anche loro, paradossalmente, aiutano a «completare il destino di Santiago. Rendono la sua sconfitta totale, eppure grande perché esaltano fino alle estreme conseguenze il suo coraggio, che – attenzione – non è solo un tratto del carattere, ma la caratura umana con cui egli affronta la propria missione».
La lettura di Bertinotti del racconto di Hemingway è tutta chiusa in una dimensione immanente dove le titaniche forze del destino si scontrano col prometeico tentativo umano di farvi fronte. Eppure è interessante che, pur all’interno di questa prospettiva, Bertinotti recuperi, innanzitutto linguisticamente, intuizioni religiose. Soprattutto quando nota che «il finale del romanzo porta un cenno di speranza. Nel destino del grande sconfitto, Santiago, il salao, c’è una sorta di resurrezione finale. Approdato sull’isola, sarà accolto da Manolin, il ragazzo, che, come una sorta di figliol prodigo, tornerà da lui per lenire le sue ferite». Una sorta di terrena «rinascita», dice Bertinotti. «Bisogna vivere la sconfitta per risorgere».
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2 commenti
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È però anche vero che, tolti Il vecchio e il mare ed i primi racconti, il resto di Hemingway è manierismo, infelice hemingwaismo.
Povero Bertinotti, ci dà una interpretazione originale e personale del capolavoro di Hemingway,e si becca un giudizio buttato là, copiato chissà dove, che t’ammazza ogni poesia, o, almeno, ci prova ad ammazzare qualsiasi poesia.
Bellissima l’intervista, fa venire voglia di una rilettura.