

La politica del mondo occidentale – ma non solo – vive la sbornia della comunicazione da social media. Facebook e Twitter stanno acquistando sempre più centralità nella veicolazione dei contenuti politici. Alla figura del media-analyst si è aggiunta – in qualche caso sovrapposta – quella del social-media analyst. Figure alle quali chi punta a conquistare uno scranno nei palazzi che contano si affida sempre di più per calibrare i messaggi da diffondere e la costruzione liturgica del proprio profilo pubblico e privato.
La social media era è solo l’ultimo approdo evolutivo di una società nella quale il soft power della comunicazione è diventato cruciale per orientare gusti ed opinioni del fronte interno.
Lasciando l’analisi dettagliata del mutamento antropologico del rapporto tra media e politica a chi ne ha competenze professionali, basterà in questa sede fare un parallelo. Il 26 dicembre del 1978 le truppe dell’Unione Sovietica davano il via all’invasione del suolo afghano. Il Partito Comunista italiano poté convocare il Comitato centrale solamente i primi di gennaio dell’anno seguente, per stilare una minuziosa relazione che, valutata la situazione, diede conto della posizione del partito tramite la sua pubblicazione su L’Unità solamente (citiamo a memoria) il 4 o il 5 gennaio del 1979.
Di recente, l’impasse comunicativa del governo Berlusconi a seguito delle operazioni militari francesi in Libia è costato in termini di critiche politiche e credibilità internazionale all’allora premier. Un silenzio di poco più di 48 ore, contro i quasi 10 giorni di elaborazione politica più che accettabili nel dibattito pubblico di poco più di trent’anni fa.
Uno dei corollari dello sviluppo della tecnologia della comunicazione dei giorni nostri è la personalizzazione dell’immaginario di chi si approccia alle decisioni pubbliche. Veicolare temi, idee, visione del mondo passa sempre di più per il volto, la storia, la mimica e la gestualità di chi li incarna. La misura della credibilità di un progetto politico è legata all’affidabilità che comunica il volto che lo esprime, la strategia politica alla costruzione della figura che la deve diffondere. Un meccanismo simbiotico, che spesso tende a ribaltarsi (il contenuto politico viene calibrato sulle potenzialità comunicative del candidato di turno).
Nella società 2.0, l’Italia, come spesso capita, si distingue per involuzione del dibattito. La percezione negativa dei vent’anni di personalizzazione berlusconiana della comunicazione politica ha portato ad una complessiva crisi di rigetto del modello empirico affermatosi negli ultimi quindici/venti anni. Avere un volto che incarna tout-court un’offerta politica è considerato un disvalore, non un segno dei tempi al quale adeguarsi fornendo un corposo retroterra contenutistico al proprio leader. Così la corsa alla spersonalizzazione della politica è diventato uno dei temi qualificante di molte agende elettorali. Una corsa che non tiene conto del cambiamento strutturale dei tempi. Ma la bizzarria dell’affresco italiano non finisce qui. Perché lo schernirsi bacchettone dei leader, il richiamo all’importanza della squadra e non del cognome di riferimento, nei fatti rimane istanza inevasa, e tutti i partiti si affannano a rendersi riconoscibili attraverso un rimando più che evidente al proprio uomo forte.
Ha iniziato Pier Ferdinando Casini una manciata di mesi fa, sostituendo nel simbolo dell’Udc il proprio nome a quello “Italia”. Se lo scudocrociato è un valore aggiunto in termini di voti (argomentazione che ha giocato non poco nello spacchettamento delle liste di Mario Monti alla Camera) nel logo dei centristi tuttavia la sua dimensione si sta sempre più rimpicciolendo. Per di più, nell’arco di qualche settimana, il cognome dell’ex Presidente della Camera è tornato a garrire nella parte alta del cerchio Udc, mettendo in difficoltà parte dei candidati alle amministrazioni locali che avevano già preparato il materiale seguendo la nuova linea casiniana. In calce ai manifesti elettorali, i riferimenti a sito e account dei social non sono quelli del partito, ma quelli personali del leader maximo. Che però rassicura: «Nessun personalismo, siamo al servizio di Monti e con lui faremo un gruppo unico in Parlamento anche alla Camera». Un gruppo unico che per il momento si presenta con tre simboli diversi, ognuno recante il nome del capocordata. Se di Gianfranco Fini si sapeva, Monti è forse la vera sorpresa di questa tornata elettorale. Dopo mesi di mantra sull’importanza della squadra di governo, del ruolo di servizio che lui e i suoi colleghi hanno regalato al paese, il premier si è acconciato al ruolo di one-man-show della sua compagine, concedendo a lettere cubitali il suo nome per il simbolo e presenziando massicciamente le trasmissioni di approfondimento politico.
Nichi Vendola da par suo promette che dopo le elezioni eliminerà il proprio nome dal simbolo di Sinistra Ecologia e Libertà. Per il momento, però, rimane lì il bella vista. L’alleato Pier Luigi Bersani si vanta di essere l’unico a non figurare sulla scheda elettorale. Ma l’intera campagna di comunicazione del Partito Democratico da oltre due anni fa perno sul suo volto. Dalle maniche rimboccate per la campagna di tesseramento, al volto rassicurante sotto lo slogan “L’Italia giusta”.
Un fenomeno simile, ma più esasperato nelle sue forme, lo si riscontra nel Movimento 5 stelle. Beppe Grillo non figura nel materiale elettorale della lista, il comico stesso non si è candidato. Ma mentre Pizzarotti e Favia, i due volti più noti tra i grillini, per diverse situazioni non sono impegnati in campagna elettorale (il primo è impegnato a fare il sindaco di Parma, il secondo ha abbandonato tempo fa la truppa) dei nuovi candidati nessuna notizia all’orizzonte. Così è il solo Grillo ha diffondere il verbo dell’antipolitica, catalizzando su di sé tutto il riverbero mediatico del quale le 5 stelle sono ammantate.
Il fronte sinistro è ben coperto anche da Antonio Ingroia. L’ex pm ha varato una lista che si professa civica, che punta tutto su volti nuovi della società civile e sulla partecipazione diffusa dei suoi rappresentanti. Peccato che, al momento di disvelare il simbolo, il nome Rivoluzione civile si è scoperto relegato al margine alto del tondo, per fare spazio ad un cubitale “Ingroia” che campeggia in nero sullo sfondo giallo dei rivoluzionari. Qualche addetto ai lavori, poi, saprebbe indicare un nome oltre al campione dello stato mafia tra i cooptati in lista che non facciano parte delle nomenklature partitiche alle quali la lista si appoggia?
Infine il Pdl. Che ha sì provato a dire che “ma figuriamoci, Silvio Berlusconi non è e non può essere il candidato premier”. Al punto che per un paio di giorni è stata viva la diatriba se a Palazzo Chigi si dovesse insediare Angelino Alfano piuttosto che Giulio Tremonti, con una spolverata di Flavio Tosi e una Giorgia Meloni quanto basta. Ma il Cavaliere si è circondato dei soliti noti e ha polarizzato su di sé tutte le attenzioni, ha battuto lungo in largo televisioni, radio e giornali, ha ricostruito quel clima da con me o contro di me che elettoralmente gli ha sempre giovato. Sotto il nome del Pdl si troverà la dicitura “Berlusconi presidente”. Ma come, non aveva rinunciato a Palazzo Chigi? La spiegazione glaciale di Bobo Maroni: «Tutto normale. È il presidente del Pdl».
È la politica (italiana), bellezza.
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