«Sistema ingovernabile, queste elezioni sono l’ultima chance per riformarlo»
«Quel che è certo è che le elezioni saranno una cosa e il governo un’altra», ha scritto qualche giorno fa sul Riformista il costituzionalista Giovanni Guzzetta, riferendosi alla storia recente del nostro paese, «quella per la quale, sino ad oggi, non solo gli esiti elettorali incerti, ma anche quelli in cui una chiara maggioranza si è affermata, hanno sempre prodotto lo stesso risultato: governi di breve durata, dilaniati dalle conflittualità interne». Le premesse di una nuova ingovernabilità, anche dopo il voto del prossimo 25 settembre, ci sono tutte: la serie di governi brevi iniziata nella Prima Repubblica e proseguita dopo il 1994 rischia di continuare.
Come rompere la serie di governi brevi dopo le elezioni
«Il problema è rompere questa serie», dice Guzzetta a Tempi, «cosa che dipende ovviamente dalla consistenza della maggioranza e da fattori politici e istituzionali. Questi ultimi purtroppo sono praticamente inesistenti nel nostro ordinamento: non c’è nessun meccanismo di razionalizzazione che metta al sicuro il governo dalle crisi. L’unica via per evitarle e mantenere la solidità della coalizione è quella politica, attraverso scelte che rendano ai partner di governo più costoso fare cadere l’esecutivo».
Secondo il giurista è presto per dire se il risultato delle prossime elezioni condurrà all’ingovernabilità, «l’auspicio è che emerga un risultato chiaro a favore dell’uno o dell’altro schieramento, che è la premessa per formare rapidamente un governo. Dopodiché dipenderà dai rapporti di forza interni, dal modo in cui chi ha una posizione di primato eserciterà il proprio ruolo. Le forze politiche sono consapevoli che la crisi istituzionale è talmente profonda che un ennesimo fallimento, qualora ci fosse una maggioranza netta, sarebbe drammatico».
Basterà come deterrente? «Non lo so, la verità è che bisognerebbe riaprire il capitolo delle riforme». Capitolo amaro nella storia recente della politica italiana: «Se noi analizziamo i tentativi recenti, vediamo che all’inizio del processo di riforma c’è una coesione da parte di chi sottoscrive l’accordo, ma poi scatta un riflesso “elettoralistico” nelle forze politiche, che si dividono lungo le direttrici delle appartenenze partitiche». È successo nel 2006 con la riforma di Berlusconi e nel 2016 con quella di Renzi, entrambe affossate per motivi politici. «Questo è un problema che si riproporrà, e che si risolve solo con un coinvolgimento più diretto dei cittadini nella fase preliminare».
Il modello del referendum del ’46
Guzzetta ha in mente il modello del referendum su monarchia o repubblica del 1946: «Quella decisione fu presa preliminarmente dal corpo elettorale, così che l’assemblea costituente non si dovette dividere su questa scelta fondamentale». La sensazione del giurista e docente di Diritto pubblico è che «le dinamiche politiche siano tali da non reggere la lunghezza del processo che una riforma così impegnativa necessita: alla prova del referendum confermativo ci si dividerebbe ancora secondo logiche elettorali. Se invece si immagina una formula per cui le scelte fondamentali della riforma vengono suffragate prima dal corpo elettorale, in modo da vincolare in qualche modo il Parlamento, è più probabile un esito positivo delle riforme».
In pratica, si potrebbe chiedere al popolo italiano di decidere tra il modello parlamentare razionalizzato, il presidenzialismo alla francese, e altre proposte di riforma istituzionale, tramite «un referendum di indirizzo, che ovviamente ha bisogno di una riforma della Costituzione per essere realizzato». A quel punto il Parlamento avrebbe confini solidi entro cui muoversi per definire la riforma.
La difficoltà di riformare un sistema che porta all’impasse
Nessun partito però parla di riforme istituzionali, o quasi, in campagna elettorale. Al massimo le si agita come bandiere, col rischio che proprio per questo vengano poi fatte ammainare. «Le forze politiche sono consapevoli della difficoltà delle grandi riforme. Per un certo periodo lo erano a tal punto che si è sostenuta la tesi che si dovessero fare riforme “chirurgiche”: l’esperienza della riduzione del numero dei parlamentari dimostra che questa tesi è stato un abbaglio: le riforme vanno fatte in modo organico. Il problema del metodo con cui si fanno le riforme è importante quanto il contenuto delle riforme: se non si cambia metodo ricadremo negli schemi del passato».
«Per questo penso che serva una sorta di “vincolo esterno” al Parlamento, che può essere dato solo dalla volontà dei cittadini. Ovviamente c’è chi dirà che i cittadini non sono abbastanza maturi e competenti per decidere su temi così importanti, ma qui non si tratterebbe di parlare di tecnicalità, ma di fare una scelta di fondo come fu una scelta di fondo quella tra monarchia e repubblica, presa da persone molto meno scolarizzate di noi, per altro».
Qualunque promessa di patti di legislatura per le riforme è destinata a non essere mantenuta, e non per la cattiva fede di chi le fa – è il caso di Letta e Meloni, che qualche mese fa ne parlavano pubblicamente – «ma perché il sistema ha logiche che portano all’impasse».
Il governo Draghi era l’ultima chance, ora strade nuove
Resta il dubbio che gli attuali partiti in campo dopo le elezioni siano in grado di fare ciò che Guzzetta suggerisce per uscire dall’impasse. «Al di là degli effetti politici, la crisi del governo Draghi è anche la crisi di quel modello di governo del presidente, del tecnico chiamato per supplire alla crisi dei partiti che in Italia è stata la soluzione tampone alle inefficienze della politica per molto tempo. L’esperienza del governo Draghi è stato l’ultimo tentativo di eludere il nodo problematico che è la crisi del sistema istituzionale». Non ci sono altre chance, chiosa Guzzetta, «abbiamo esaurito tutte le carte possibili. O accettiamo il destino dell’ingovernabilità e dell’irriformabilità del sistema o accettiamo il fatto che bisogna percorrere strade nuove».
Il ritorno della politica non è per forza un male, insomma: «Innanzitutto è un fatto. Il problema è se la politica è in grado di assumersi la responsabilità che questo fatto comporta: prendere in mano le sorti del paese e imprimere le svolte necessarie. Tutte le strade possibili sono state percorse: quelle delle grandi coalizioni, quelle delle maggioranze politicamente connotate e omogenee, quelle dei governi tecnici con maggioranze eterogenee, quelle dei governi del presidente… Dobbiamo constatare che nessuna di queste formule è stata risolutiva: sono state tutte soluzioni tampone, anche importanti e significative come il governo Draghi, ma non definitive, che non curando la malattia ci consegnano alla probabilità di ricadute».
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