Guai a lasciare l’apocalisse nelle mani degli apocalittici
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Quando Giove volle rivendicare i suoi diritti, stabilì e ordinò che le pianure fossero misurate e i campi delimitati da confini; consapevole della cupidigia umana e del desiderio di possedere terra, volle che i confini fossero segnati con termini i quali, un giorno, gli uomini delle nuove ère violeranno per avidità, manometteranno e rimuoveranno. Ma chi toccherà i confini a proprio vantaggio sarà dannato per aver commesso un’imperdonabile scelleratezza. Se questo faranno i servi, costoro finiranno sotto peggior padrone. Se avverrà per intrigo familiare, la casa sarà sradicata più celermente e tutta la famiglia perirà. Questi violatori di confini saranno poi afflitti da ferite e crudeli malattie, e infiacchiti in tutto il corpo. Anche la terra sarà allora travagliata da tempeste e turbini. I frutti saranno perennemente guastati e danneggiati dalla pioggia e dalla grandine; moriranno per arsura canicolare, saranno rosi dalla ruggine. Ricordate che questo avverrà quando si commetteranno tali scelleratezze» (Gromatici Veteres, I, 350 e segg). Tale profezia nasce in ambito etrusco, in seno a un popolo post atlantideo e già in età storica travagliato dal fatalismo oscuro che caratterizza i cicli di civiltà giunti al termine delle loro possibilità vitali. A quanto pare la profezia si addice al presente degli occidentali permeati dall’ansia d’una imminente fine.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Questo numero di Tempi è dedicato all’apocalisse quotidiana che attraversa il sistema mentale e linfatico dell’Occidente, avvelenandolo con la paura. Paura virale, bellica, demografica, climatica, economica, escatologica in definitiva. Una malattia dell’anima alimentata dal vortice del sistema mediatico, da quelle antenne satellitari vere o immaginarie che si stagliano verso il cielo come capelli irrigiditi in un principio di orripilazione terrorizzata. C’è il sospetto che l’esperimento umano sia giunto a un punto limite, di là dal quale s’indovina la zombie renaissance di cui scrive Damiano Palano sull’ultimo numero della Rivista di Politica diretta da Alessandro Campi: «… la sagoma ferina degli zombie materializza plasticamente quello scenario della catastrofe, dell’implosione sociale e del crollo di qualsiasi ordine che nutre la nostra concezione poststorica e postpolitica. Quantomeno perché torna ogni volta a ripeterci che dopo il tramonto dell’ultimo uomo ci può attendere solo lo spettacolo di una definitiva apocalisse zombie». Ma le cose stanno davvero così?
Proprio quando i persuasori di angoscia – secondo i quali verremo presto sterminati da sconvolgimenti climatici, batteri e virus killer, sovrappopolamento, guerre civili mondiali e così via – sono sul punto di farci ingoiare la pietra della disperazione, è il momento in cui le forze solari latenti nel nostro corredo ancestrale ci richiamano al senso del dovere ereditato dai Padri. A tramontare non è il nostro mondo, e cioè l’intangibile dimensione trascendente del sacro e del bello, ma la sua sconsacrata e secolare contraffazione, la rappresentazione rigida di una realtà fra le infinite possibili. Come ogni rappresentazione, anche la civilizzazione globale postmoderna non ha un’essenza propria e un destino ineluttabile: è il frutto di chi crede fideisticamente in essa. L’apocalisse abita nel petto di chi ogni giorno asseconda pigramente l’inerzia che conduce al caos indistinto.
L’uomo della tradizione vuole riconquistare goethianamente ciò che ha ereditato dai propri antenati, non fugge l’apocalisse quotidiana: la guarda negli occhi e dice: io sono tutto questo, ma l’io non è nulla eppure può tutto, anche dissolverla.
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