
Grido d’io
Era una sera del 1988, quando metà del pubblico lascia la Pergola, il teatro di Firenze, tra fischi, urla e indignazione. Qualcuno no, qualcuno rimane, è commosso, applaude. Fuori, gli indignati si ricongiungono alle stelle che brillano sopra la cupola di Brunelleschi, dentro il teatro un tossicodipendente le ha maledette, prima di stramazzare al suolo, morto di overdose. Può il teatro strappare la vita e sublimarla in un abbraccio mortale? Giovanni Testori non ha guardato il suo pubblico quella sera, il pubblico che si schierava, non “assisteva” e basta. Accadeva qualcosa quella sera nel teatro borghese fiorentino, si rompevano i riti del teatro. Testori era concentrato sulla cosa che aveva preso vita quella sera, ha guardato il “suo” Branciaroli contorcersi, bestemmiare, rispondere e rispondersi, con le stesse parole, quelle parole che egli stesso aveva immaginato, sentito, custodito per il “suo” dannato, la voce di “In Exitu”, di un canto mortale. Scriverà poi: «Alla Pergola mi sono trovato là sul proscenio, indifeso o difeso da quella enorme umanissima urlante, plorante e pregante presenza di Branciaroli. Com’avevamo deciso insieme abbiamo tenuto duro e resistito, con ogni probabilità, avremmo dovuto anche in altre occasioni… eppure di quelle tempeste provo già una lucente orrida nostalgia, come se mi avessero introdotto, irreparabilmente, in quel ventre del teatro di cui avevo scritto tanti e tanti anni fa, e come se, uscirne, ormai non mi fosse più possibile; come se, anzi, d’uscirne mi fosse vietato il desiderio». Erano gli anni Ottanta quando s’incontarono. «Testori aveva una compagnia teatrale – racconta Franco Branciaroli – si chiamava gli Incamminati, e chiese a me, Emanuele Banterle e Gian Mario Bandera di rilevarla. È cominciata così la nostra storia negli Incamminati, con tre “B”». Tre “B’ che dicono “sì”, e che attualmente compongono una delle più importanti realtà del teatro italiano; ma il rapporto tra l’attore e Giovanni Testori è stato tutt’altro che una specie di s.p.a.: come potrebbe esserlo quando ti vedi consegnare una doppia “Branciatrilogia”? Testori aveva sempre detto che le opere erano scritte in funzione di un attore, di una persona fisica che le avrebbe incarnate sulla scena – come del resto aveva fatto con Franco Parenti, per il quale aveva scritto “Ambleto”, “Macbetto” ed “Edipus” –; ma con Branciaroli l’unione tra attore e autore, che è anche regista, era diventata totale e portava il nome, negli anni Ottanta, di “Confiteor”, “In Exitu”, “Verbò”, e, negli anni Novanta, di “Sfaust” e “Sdisoré” (orfane della “terza opera”, mai terminata anche a causa della malattia dell’autore).
«Lavorare con Testori – racconta Branciaroli – non era diverso da altri per questioni “tecniche”. Con Testori c’era il fatto straordinario di una visione del teatro esattamente opposta a quella comune. Cioè, il teatro ormai a contatto con tutte queste potenzialità (che sono il cinema, la televisione, i computer e compagnia bella) è evidente che abbia perso informazione, scenografia, spettacolarità – sarebbe ridicolo competere con questi mezzi! –. Testori aveva saputo individuare un altro livello, un livello altissimo, che è lo spazio di un tentativo folle: rendere la carne verbo anziché il verbo carne, un procedimento inverso, quasi inarrivabile, che avrebbe salvato il teatro, lo avrebbe posto nella condizione di esserci».
Perché “lo avrebbe”?
«Se il “teatro di adesso” chiudesse domattina non ti accorgeresti di nulla. Il teatro ha scelto di non seguire la grande sfida testoriana, di non seguire un’indagine profonda sull’essere umano, sull’Essere, si è ridotto a mera ripetizione di testi già scritti e riscritti quando c’erano certezze diverse. È diventato un museo, privo per giunta di mezzi atti a raccontare la grande tradizione, è una macchina avviata da piccoli dispositivi e per gruppi organizzati, tesserati, mandati e di passaggio… è un’arte non sentita».
L’attore, attualmente alle prese con l’“Edipo” e la “Sfinge” di Hugo von Hofmannsthal, ne ha per tutti, e al chiedergli cosa vorrebbe dal pubblico rincara: «Il pubblico, come il popolo, è una cosa che sceglie, e quindi oggi non esiste né pubblico né popolo: quello che trovi in sala sono tesserati, punto e basta. Tesserati che partecipano ad eventi culturali, ma che in realtà non sono eventi, sono cose che ci sono, stanno lì, ma non accadono. In realtà non succede niente, dopo è tutto come prima. Faccio un esempio: la mostra di Van Dick è un evento culturale, ma non è un evento, non accade, non irrompe. Al teatro invece è stata consegnata la possibilità di affondare là dove nessun mezzo tecnico può arrivare: la morte, Dio, l’Essere… Chiamalo come ti pare ma è questo il livello per cui diventa interessante parlare di teatro».
T.S. Eliot scriveva che il teatro è il medium ideale tra il popolo e la poesia: tra la grande intuizione del Vero e del Bello e il popolo che la rende strada, cammino, destino. Pensava alla tragedia greca Eliot, come Testori. E Testori pensava, ancora, al teatro elisabettiano, a Shakespere portato in scena sulle piazze, e alle grandi opere dell’arte del Seicento, ai sacri monti che radunavano un popolo intorno a quelle statue lignee, e poi all’attore che quel legno rendeva carne. Giovanni Testori amava raccontare che un grande pittore montano, Villy Varlin, gli aveva detto dopo la prima dell’“Ambleto”: «Il tuo teatro è una cosa che sta lì, a metà tra questi – e indicò le marionette del grande Colla che per l’occasione il teatro esponeva nel ridotto – e il Calvario… Che avesse già inteso – aggiungeva Testori – nella devastazione mia di allora l’incombente e caro futuro di poi?». L’attore era quella carne che sulla scena diventava verbo, diventava parola, si comunicava, rendendo tutto il suo corpo parola, anzi Parola perché, come intuiva Testori, c’era qualcosa di sacro in quell’accadere. Ma l’accadere era per il pubblico, che non poteva andarsene come era venuto. Eppure se si guarda al livello della questione il panorama pare semideserto oggi. Ma Branciaroli c’è e con lui un teatro che non è fatto di improvvise folgorazioni, punti di svolta, compromessi, che non stupisce con effetti speciali perché non ha altro da dire. Perfino lo scandaloso “In exitu” «non ha cambiato qualcosa, non è stato diverso per me da altri testi. È “quel” testo a essere diverso, a prescindere da me. Quello, come altri testoriani, ha un linguaggio proprio, espressivo e trascende l’attore, non gli chiede di cambiare. Se vuoi quel testo è molto più facile da recitare, ma non per me, per chiunque lo sarebbe, perché costringe da solo ad una immedesimazione assoluta, temporalmente vicina, ha un’originalità sua che trascina».
Branciaroli non sembra rinunciare mai a questa compromissione con il testo, con le parole che pronuncia sulla scena: anche senza i testi di Testori, Branciaroli spezza e compone sulla scena parti difficilissime, in un lungo elenco di classici che vanno da Shakespeare a Goldoni a Gogol a Ibsen, spesso anche come regista. «No, non spesso, direi di rado… il fatto è che all’inizio gli Incamminati non avevano troppi soldi e per ragioni di risparmio la regia toccava a me, ma non è certo il mio mestiere preferito a meno che non ci siano occasioni divertenti: un esempio sono stati gli spettacoli al Meeting, quelli sì che mi son piaciuti, erano diversi, erano “sentiti”». Quest’anno Branciaroli tornerà al Meeting, «non faccio spettacolo, leggo delle prefazioni a brani di musica classica scelti da Giussani». Lui non lo chiama spettacolo, ma nel nostro profano e commerciale senso delle cose sarà comunque spettacolo. Non lo diciamo noi, ce lo ha insegnato Testori quando, di nuovo sul palco con Branciaroli per “Verbò”, scrisse: «Nessun attore al mondo poteva assumere e portare all’incandescenza a cui la porta, la parte che concentra “Rimbaud” e Branciaroli, come Branciaroli, credo di poter affermare con totale certezza. Nessuno come lui».
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