Gli insulti a Meloni di una sinistra in crisi
L’indignazione è la lente sbagliata con cui guardare casi evidenti di discriminazione. È ciò che scrive acutamente oggi sulla prima pagina della Stampa il politologo Giovanni Orsina commentando il caso degli insulti del professor Giovanni Gozzini alla leader di Fdi Giorgia Meloni (Pensiero fragile dei progressisti). Il fatto è noto: durante un dibattito online, il docente dell’università di Siena ha rivolto insulti irripetibili all’onorevole. In seguito, il rettore dell’Università Luigi Frati ha proposto alla commissione disciplinare dell’Ateneo di sospendere Gozzini per tre mesi.
Orsina commenta l’episodio chiarendo innanzitutto che si tratta di un fatto riprovevole, ma che esso non è un attacco sessista, ma un «attacco politico aggravato dai toni sessisti». Si tratta quindi, innanzitutto, di capire bene di cosa stiamo parlando e, in questo caso, stiamo assistendo, per l’ennesima volta, al solito episodio in cui un avversario politico viene dipinto come un «nemico», viene mostrificato, gli si toglie dignità perché non gli si riconosce nemmeno «umanità» (gli stessi insulti rivolti a Meloni erano infatti tutti “animaleschi”).
Cosa pensano a sinistra della Meloni
È una storia che si ripete con frequenza e di cui «non è vittima solo la destra», nota Orsina.
«È vero però che negli ultimi decenni, complice la preponderanza di orientamenti progressisti nel ceto intellettuale, la sinistra ha coltivato assiduamente il mito della superiorità morale, e di conseguenza la convinzione che chi non si schiera dalla sua parte sia affetto da un irrimediabile deficit etico. […] La cultura progressista vuol essere razionale, equanime, rispettosa, inclusiva. La sua pretesa alla superiorità morale passa per la negazione della sua pretesa alla superiorità morale. È anche per questo, mi pare, che Gozzini ha suscitato scandalo: perché ha squarciato un velo. Se non nella forma, ha detto quello che nei quartieri progressisti tanti pensano di Meloni e di chi la vota. Lo pensano ma non vogliono ammettere di pensarlo, e certamente non vogliono che lo si dica in quel modo, perché i faziosi e gli intolleranti sono per definizione a destra, mai a sinistra».
La sospensione di Gozzini
C’è poi un secondo punto del ragionamento di Orsina che riguarda la sospensione dall’insegnamento di Gozzini. È un provvedimento corretto?
«Dobbiamo chiederci se sia giusto, e quanto sia pericoloso come precedente, che un datore di lavoro sanzioni un lavoratore per un’opinione espressa al di fuori del luogo di lavoro. Immagino le obiezioni: un’università non è un luogo di lavoro come gli altri ma un’istituzione educativa, e un insulto non è un’opinione. Obiezioni fondate ma non indiscutibili. Un’università è un’istituzione educativa, ma non è una scuola elementare. L’università è il più avanzato fra gli istituti di formazione, dove si deve poter pensare con nettezza, ci si deve poter spingere verso i limiti, e ci si deve poter scontrare intellettualmente anche con durezza. Se entro le sue mura non possono mancare le regole – non intendo legittimare l’insulto e il turpiloquio! –, è dubbio che per chi insegna quelle regole debbano valere anche al di fuori dell’Ateneo. Quanto al rapporto fra opinione e insulto: il confine fra un’affermazione lecita e una illecita lo stabiliscono le leggi, discusse dall’opinione pubblica, approvate con procedura democratica, applicate dai tribunali. Siamo sicuri che sia saggio lasciare che a fissarlo, quel confine, sia la commissione disciplinare di un’università?».
In entrambi i casi, conclude il politologo, il caso mostra la «fragilità del pensiero progressista. Fragile perché il senso di superiorità morale ne copre a malapena la profonda crisi politica. E fragile perché, per combattere sessismo e discriminazioni, finisce per accettare e anzi sollecitare il disciplinamento ideologico sul luogo di lavoro. Un esito pericoloso, contro il quale da sinistra si è combattuto, con ottime ragioni, per tutto il Novecento».
Foto Ansa
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