
Gli eroi di Stone zittiscono tutti
Venezia
La Grande Storia in prima serata al Lido. Riscritta. E sempre nello stesso modo: contro. Contro gli Usa, lo Stato imperialista che finanzia Bin Laden a danno dei sovietici e causa la reazione dei “resistenti afghani” e i fatti dell’11 settembre, come ci insegna Cristophe de Ponfilly nel suo L’etoile du soldat. Contro Richard Nixon, alter ego di George W. Bush, prima nemico infido poi mandante dell’omicidio Lennon, il Gesù pacifista che predica la non violenza dalla camera da letto, così come da santino firmato Leaf/Scheifield (The US vs. John Lennon). Contro l’Occidente, che ne esce sempre male, vincitore brutale nella II guerra mondiale descritta da Black Book di Paul Verhoeven, in cui gli Alleati si comportano al pari (se non peggio) dei colleghi nazisti. Contro l’Italia, paese intollerante, stando a Lettere dal Sahara di Vittorio De Seta, sorta di Candido islamico: un senegalese, dopo essere giunto in Italia ed essere stato malmenato, è spinto a tornarsene in patria dall’imam che predica vendetta («Gli europei ci hanno sempre sfruttato come schiavi ma la pagheranno»). E contro il cristianesimo, bersaglio di una vera e propria critica preventiva. Così, alle proiezioni dedicate agli addetti ai lavori i baroni della critica hanno manifestato grande rispetto per monaci buddisti e immedesimazione totale nei confronti del protagonista musulmano di Lettere dal Sahara, che preferisce vivere in una baracca piuttosto che nella casa accogliente della cugina modella colpevole di convivere con un cristiano; grasse risate di scherno, invece, alla vista del collarino bianco di un prete che predica una strana forma di dialogo, preferendo i versetti del Corano a quelli evangelici. Per non parlare del Gesù misericordioso che appare a un certo punto in World Trade Center di Oliver Stone, accolto con fischi fragorosi. Persino il controverso Black Book, nonostante il regista olandese abbia fatto un po’ di confusione tra buoni e cattivi nell’Olanda occupata dai nazisti, su una cosa ha messo d’accordo tutti: i cristiani erano i peggiori, perché convertivano a forza gli ebrei durante la guerra, e si vendicavano dei traditori alla fine del conflitto. Sull’altro fronte, applausi a scena aperta alla masturbazione di un uomo in coma nel film I Don’t Want to Sleep Alone di Tsai Ming-Liang, il quale, rimarcando orgogliosamente di essere stato il primo regista di Taiwan a inserire una masturbazione in un film, ha spiegato così la sequenza ai giornalisti attoniti: «Nei miei film la mano ha un ruolo importante, sia quando accarezza, sia quando asciuga le lacrime». Una Mostra quindi all’insegna della Pace e dei Valori, come ben ha testimoniato la lettera con cui Jean-Marie Straub, autodefinitosi «amante della pace, della natura e degli animali», ha presentato il proprio film, Quei loro incontri, tratto dai Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese: «Finché ci sarà l’imperialismo americano, non ci saranno abbastanza attacchi terroristici». Risultato? Un Leone speciale per l’innovazione del linguaggio. Al limite del surreale.
Verdetti sconcertanti
Come del resto altri premi. Se sceneggiatura e miglior attrice (la straordinaria Helen Mirren) a The Queen erano sacrosanti, perlomeno esagerato appare il Leone d’oro al cinese Still Life, due storie d’amore ambientate in una Cina che pare implodere: ben strutturato e diretto, con momenti di autentico lirismo, ma niente più. Il film della Mostra, invece, che per una volta tanto aveva messo d’accordo addetti ai lavori e pubblico, è stato Nuovomondo di Emanuele Crialese, capace di parlare di immigrazione senza piagnistei e senza spocchia intellettualistica. Gli hanno dato un contentino, il Leone d’argento Rivelazione, premio assurdo perché Crialese non è all’esordio. Qualche strascico polemico avrà il premio come miglior documentario al film di Spike Lee sull’uragano Katrina, se non altro perché a conferire il premio è stato un certo Yousry Nasrallah, regista egiziano altrimenti ignoto. Puro narcisismo critico il premio “Il cerchio non è rotondo. Cinema per la pace e la ricchezza nella diversità”, conferito da una giuria di giovani critici a Tsai Ming-Liang, quello della sega. Tra le motivazioni del premio «la dimostrazione di come la costruzione del sé passi attraverso gli altri, e la cura, l’amore e il rispetto siano le condizioni che consentono il riempimento del nostro vuoto interiore».
A parte poche eccezioni, prima fra tutte Children of Men, in cui il regista Alfonso Cuarón affida la speranza di un’umanità che non riesce più ad aver figli al viaggio di un padre, una madre e un figlio, trasparente allusione alla Sacra famiglia, la realtà che si specchiava sugli schermi del Lido era a senso unico: famiglie distrutte, padri assenti, mariti invisibili, affetti che durano il battito di un ciglio. L’uomo ridotto a un intreccio casuale di muscoli, nervi e liquidi, una coscienza debole da annichilire in tutti i modi possibili. In questo senso, il film manifesto della Mostra è stato Fallen dell’austriaca Barbara Albert, con una scena madre particolarmente significativa: cinque donne su un promontorio, vestite a lutto ed esposte a un vento impetuoso, un turbine freddo e casuale, a godersi un sole che finirà ben presto. Come dire: siamo solo delle foglie, pronte per essere spazzate via. Per sempre.
Per fortuna c’erano i grandi. Spike Lee è stato, come sempre, controverso. Ha utilizzato il suo film, When the Leeves Broke, per un vero e proprio show ai danni dei soliti noti («George Bush e Condi Rice sono due personaggi tremendi»). Eppure, nell’epico documentario di quattro ore e rotti sull’uragano Katrina e sulla ricostruzione di New Orleans non ci sono solo insulti e atti d’accusa contro il governo americano; c’è la ferita aperta di un popolo cristiano che osa sperare anche nei momenti più tragici: tra i momenti migliori del film la scena delle migliaia di persone stipate nel Superdome, che per difendersi dalla tempesta pregano e cantano spirituals.
La luce sotto le Twin Towers
La luce – è proprio il caso di dirlo – nell’oscurità veneziana è però arrivata grazie al sorprendente World Trade Center di Oliver Stone. Accolto con fischi sonori dalla stampa, che non ha apprezzato la svolta buonista del regista di Platoon, vecchio critico dell’amministrazione Usa, in realtà il film di Stone, secondo la cifra del miglior cinema americano, è un inno alla speranza senza retorica né sentimentalismi appiccicosi, un inno alla semplicità: due poliziotti coraggiosi entrano nelle Torri per salvare delle vite e rimangono sepolti sotto le macerie; immobilizzati e feriti, si fanno compagnia l’un l’altro nel nome di qualcuno. Nel nome delle proprie mogli, che attendono tremanti nelle case abitate da nugoli di bambini. Nel nome del proprio paese, che accorrono a difendere nel momento del bisogno. E anche nel nome di Colui che nel momento più intenso del film appare in una visione accecante. Stone, che in conferenza stampa ha parlato del film come di «un’opera sulla compassione e sulla carità che esiste ancora in questi momenti cupi», ha infastidito la critica soprattutto per la costruzione del personaggio del marine Karnes: in preghiera davanti a un crocifisso, capisce che la sua missione è raggiungere il luogo del disastro per salvare il maggior numero possibile di vite. Ha dato fastidio questo “soldato per il bene”, soprattutto perché poi, con il medesimo spirito, avrebbe passato due anni in Iraq. Qualcuno in conferenza stampa gli ha dato ironicamente del templare, e Stone è sbottato: «Quello che è stato descritto non è un’opinione, ma il puro svolgersi dei fatti».
Ma di fronte a tutte le domande dei giornalisti a caccia della frase politicamente corretta, ciechi e però sempre pronti a razzolare alla ricerca di qualsiasi riferimento nascosto all’ingiusta politica imperialista di Bush, al potere occulto della Cia e alle ragioni del terrorismo islamico, più di tanti discorsi è bastata la presenza dei due poliziotti su cui World Trade Center è stato girato. John McLoughlin e William Jimeno sono arrivati al Lido a presentare la pellicola che si basa sulla storia del “loro” maledetto 11 settembre. Sono stati loro, con le loro ferite, il loro incedere zoppicante e le mogli al fianco, a tacitare per un momento i risolini delle iene del grande schermo e a regalare il momento più lieto e sereno, sprazzo di luce in una mostra buia, cinica e prevedibilmente avviata verso il tramonto.
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