Gli antisociali

Di Luigi Amicone
14 Giugno 2007
«Il governo Prodi crede di risolvere i problemi del paese tartassando il Nord per mantenere il Sud con i soldi pubblici. Ha immolato la produttività italiana sull'altare del centralismo». L'errore antropologico dell'Unione

Conoscerlo da un’ora o da trent’anni è la stessa cosa. Giorgio Vittadini, professore di statistica e leader cattolico-popolare di primaria grandezza, è un po’ il nostro Cormac McCarthy. Detesta le telecamere e se le luci della ribalta camminano su un certo lato della strada, state sicuri che lui cammina dall’altro lato. Prima che un noto imprenditore di sinistra ammettesse che «non esiste più alcuna sintonia tra chi ci governa e il Nord Italia», parlando a un gruppo di capitani d’azienda Vittadini aveva già detto che questo esecutivo non ha una politica economica adeguata.
Professore, in cosa ha sbagliato il governo Prodi?
È importante ricordare che le regioni del Nord sono sempre ricche, mentre il Sud è sempre più povero, che nel Sud l’economia è in gran parte pubblica amministrazione, che l’economia italiana è ripartita grazie alla competitività dell’industria a livello internazionale, mentre ristagna la domanda interna. Di fronte a questa situazione il governo pensa di risolvere i problemi italiani tassando a più non posso l’Italia che va per finanziare attraverso la spesa pubblica l’Italia che non va. L’errore è di fondo, è “antropologico”: l’Italia con la miriade di piccole e medie imprese è l’Italia del cittadino produttore, imprenditore o dipendente che sia, non del cittadino consumatore. Occorre puntare tutto su un aumento della capacità produttiva che nasce dal basso. Allora sarà più facile chiedere a chi produce sacrifici per farsi carico di chi è più povero e far sì che ci siano meccanismi di redistribuzione sussidiaria. Come dice Formigoni, la Lombardia e le regioni più ricche possono direttamente trasferire parte delle loro risorse al Sud senza darle a Roma in un sistema federalista attivo e solidale. Tuttavia questi meccanismi sussidiari levano potere a chi vuole controllare tutto e si costruisce tesoretti da gestire.
Ma ci sono fattori che fanno ancora ben sperare sul nostro futuro? E quali sono, invece, le tossine che rendono difficile la ripresa?
È l’enorme potenziale capacità di iniziativa del tessuto produttivo e sociale italiano a far sperare. Davano per morta l’industria italiana. Certi editorialisti di prima pagina sputavano sul nostro sistema produttivo e alcuni politici definivano la piccola e media impresa come ammortizzatore sociale. Adesso invece i politici rivendicano il merito dell’inversione di tendenza e gli editorialisti non hanno neanche il pudore di fare autocritica. Tacciono anche sul fatto che 15 milioni di italiani su 27 hanno scelto di dare il 5 per mille soprattutto al mondo no profit. Vale a dire hanno scelto per una welfare society. Questo è il secondo fattore di speranza. Il terzo sono le minoranze creative che capiscono come sia cruciale il tema dell’educazione e cercano di rispondere a quel 61 per cento di italiani che, secondo una recente ricerca, capiscono che l’educazione è la principale emergenza. Certo, ciò detto, la situazione è difficilissima, soprattutto per il crollo delle motivazioni ideali che minano alla radice questo spirito di iniziativa creativa.
Che considerazioni le suggerisce il risultato delle amministrative?
Le amministrative fotografano il disa-gio di chi lavora ed è bloccato nel suo spirito di iniziativa. Ci sarebbe bisogno di chi, interloquendo con questo mondo, proponga cambiamenti di programma che rispondano alle sue istanze e prepari una nuova classe dirigente. È un lavoro di anni, come dimostra il lungo percorso di Sarkozy, dei popolari spagnoli sotto Zapatero e l’emergere progressivo della Merkel dopo tante critiche. Chi lo sta facendo in Italia? Come è già avvenuto nel recente passato, mi sembra stiano prevalendo logiche personalistiche con cui si rischia di sostituire a un governo inadeguato un altro governo inadeguato, perché non è espressione di una nuova leadership “antropologicamente” differente da quella attuale, quindi non è attento a logiche sussidiarie.
Lei non è implicato direttamente in politica. Però la sua attività ha incidenza sulla vita pubblica. Qual è la “sua” politica? E qual è il suo giudizio sull’attuale quadro politico italiano?
La mia concezione politica rimane legata alla concezione espressa da don Luigi Giussani nel discorso ad Assago alla Democrazia Cristiana lombarda nel 1987: “Più società, meno Stato”, ovvero una politica “sussidiaria” attenta a valorizzare le iniziative economiche dal basso, le “opere”, i “corpi sociali” non corporativi, dove venga custodito e valorizzato il desiderio di verità, giustizia, bellezza dell’uomo. La Seconda Repubblica è ancora più lontana da questa concezione della Prima, che già non brillava in questa direzione.
Giuliano Ferrara ha festeggiato in Savino Pezzotta la nascita di quello che il direttore del Foglio ha definito “un capopolo”. Accoglierebbe con lo stesso entusiasmo di Ferrara la nascita di un movimento cattolico “parapolitico” di tipo nuovo?
Al di là di intenzioni e al di là dei valori, anche condivisibili, che si vogliono difendere, mi sembra si commetta un grave errore parlando di capipopolo e lanciando idee tipo “movimento popolare anni Settanta”. Una deriva politica del Family day mi sembra in senso esattamente opposto al contenuto del discorso di Assago appena ricordato. È la rinascita della vecchia tentazione dell’egemonia: costruire un’avanguardia che salva il popolo attraverso la politica. Del resto è una tentazione che riappare con regolarità: qualche anno fa, dopo il caso Buttiglione, si voleva lanciare un movimento politico di tipo neocon, poi si è sperato nel grande demiurgo che risolveva i problemi del paese. Non è la politica cha salva una nazione, né una politica affidata a princìpi né una politica populista: la realtà col tempo dimostra che con queste scorciatoie non si va da nessuna parte. Infatti in questo modo si dimentica che ciò che è in crisi è proprio l’identità di popolo e di famiglia, e che quindi il primo bisogno è quello di un lavoro educativo, di ricostituzione dell’identità dei soggetti. Una manifestazione non fa primavera: questo lavoro educativo avviene in tempi lunghi, giorno per giorno, perché consiste nella ripresa di coscienza esistenziale e personale del significato della vita, della famiglia, dei corpi sociali a cui si appartiene. Mal si attaglia con l’ansia di risultato tipica di un movimento politico, che dà per scontato tutto questo. Come dicevamo negli anni Settanta in università: la prima politica è vivere.
E guardando alla Casa delle Libertà, cosa stima di più, Berlusconi, la Brambilla, Fini, il partito unico dei moderati?
Mi interessa di più rilevare che abolendo le preferenze per l’immoralità che portano, i nostri rappresentanti in Parlamento sono decisi dall’alto come se fossimo al tempo delle signorie. Così, in mezzo a tante persone valide, non mancano soubrette e lacché dei potenti, che invece di correggere le loro manie di grandezza ne esaltano gli aspetti peggiori. Preferisco l’epoca dei liberi comuni e i politici che si formano e sono legati al territorio. Anche perché in questo clima crescono le proposte tecnocratiche di intellettuali e opinionisti che vogliono consegnare l’Italia a qualche potentato finanziario che vuole usarla per fare shopping. Per questo ritengo importante la petizione promossa da molti esponenti pubblici per il ripristino delle preferenze.
Lei non è uno snob, però è uno dei pochi italiani che in casa non ha la televisione. Perché?
Non ho la televisione per mie scelte personali, non per snobismo. Però, a costo di sembrare retrò, coerentemente con quanto ho detto prima, voglio solo dire che i talk show, dove la politica che dovrebbe essere discussa tra la gente e con la gente viene solo ascoltata passivamente, sono una sciagura. Aiutano a rimbecillire, a diventare passivi, a essere preda del potente di turno. Ma come si fa a vivere incontrandosi alla mattina e dicendosi “Hai visto ieri sera a.”?

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