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Home Economia

Giannino: il caso della banca milanese interroga tutto il sistema italiano

I 700 esuberi annunciati dalla BpM sono un piano severo, che permette di fare quattro considerazioni sul sistema bancario di casa nostra.

Oscar Giannino
17/08/2012 - 12:31
Economia
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Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 32-33/2012 di Tempi.

La Banca Popolare di Milano si avvia a un deciso turnaround, con 700 esuberi annunciati e interventi di razionalizzazione, riallocazione e verifica dei criteri di prepensionamento alla luce delle disponibilità del fondo esuberi per altre 2.300 risorse. È un piano severo, nel quadro di una generale rifocalizzazione della banca su efficienza, contenimento dei costi, ripresa della redditività, ridefinizione delle mission aziendali, avvio di dismissione di sportelli, al momento una trentina.

Per la gestione Montani-Bonomi è l’oneroso avvio del nuovo piano industriale 2012-2015. Ma la discontinuità è molto profonda rispetto al precedente modello organizzativo della popolare milanese. Ricordiamolo, tra tutte le banche popolari italiane la Bpm era quella nella quale lo statuto accentuava rispetto anche a tutte le altre le modalità di codecisione degli obiettivi e della gestione nelle mani della rappresentanza dei soci-dipendenti. Se l’ultimo avvicendamento ai vertici della banca è avvenuto sotto il pressante impulso delle indagini giudiziarie e delle misure cautelari che hanno colpito l’ex presidente Massimo Ponzellini, anche il confronto sulla leadership uscente di Roberto Mazzotta alla precedente tornata si era consumata intorno alle forme e ai limiti di cogestione attribuiti agli Amici della Bpm, il coordinamento soci dipendenti raccolti nei sindacati interni. Di fatto, quel che sta avvenendo alla Bpm è una sorta di mutamento della sua natura giuridica, con l’allineamento a molte delle caratteristiche fondamentali di una banca commerciale in forma di Spa.
Nessuno ascoltò il governatore Draghi
Almeno quattro sono le considerazioni essenziali che la vicenda attuale Bpm evoca. La prima è che i sindacati dei dipendenti soci vengono sanzionati duramente per il cattivo uso che hanno fatto delle proprie scelte gestionali. I precedenti direttori generali e vice non hanno compreso che le prerogative di un tanto esteso ambito di cogestione andavano asseverate perseguendo scelte di indiscutibile eccellenza e redditività, che a quel punto avrebbero spuntato le armi a chi è convinto che la formula cooperativa sia superata dal tempo.

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La seconda è figlia di un errore di percezione politico. In effetti, durante l’intero mandato di Mario Draghi in Bankitalia, furono numerosi gli accenni che l’allora governatore riservò alla necessità di una profonda rivisitazione della governance e delle caratteristiche del modello di banca popolare nel nostro ordinamento. Tuttavia la politica in Parlamento fece capire che non avrebbe seguito il governatore, e di conseguenza gli istituti confidarono di poter affrontare le conseguenze dei rilevanti problemi emersi nelle indagini 2005 – la Popolare di Lodi di Fiorani, lo scandalo Italease eccetera – senza tuttavia avviare un proprio ripensamento, che non rinunciasse alla formula cooperativa ma la auto adeguasse ai tempi.

 

Una lettura della crisi sbagliata
La terza considerazione deriva dalla natura iniziale della crisi. Quando nel 2008-2009 sembrò che a essere investito dall’onda di piena della sfiducia fosse esclusivamente il modello della grande banca universale internazionalizzata, ad alta leva e bassa congruità patrimoniale. Si è rivelata un’illusione, alla fine: anno dopo anno e con l’eurocrisi, l’intero sistema bancario è stato minato nella sua liquidità, patrimonializzazione e redditività. Oggi il sistema bancario italiano nel suo complesso è a redditività praticamente zero, con un cost-income troppo elevato in ragione di troppe agenzie e dipendenti, una parte di internet banking troppo esigua e a troppo basso margine, un cross selling di prodotti inadeguato al mutare della percezione del rischio da parte di clienti terrorizzati. È del tutto ragionevole immaginare che fino al 10 per cento delle attuali oltre 33 mila filiali bancarie italiane debbano essere dismesse entro i prossimi 5-6 anni, e 900 chiatte sono del resto già state annunciate negli ultimi tre mesi.

Malgrado tutto questo – quarta e conclusiva considerazione – avviare la trasformazione di fatto di una grande popolare in banca simil-Spa è un errore. Capisco che per i trascorsi gli Amici della Bpm si trovino oggi ad aver pochi o zero amici, come sempre capita in un paese spesso forte coi deboli e debole coi forti, ma le tante componenti della vita pubblica italiana che hanno passato i primi due anni della crisi a magnificare le banche popolari e le Bcc come forza vera del sistema italiano, che fine hanno fatto oggi? Non avviare riforme di ordinamenti significherà una sola cosa: che a mutare sarà chi sta messo peggio, ma contemporaneamente chi per sportelli raccolta e insediamento geoeconomico e reddituale fa più gola.

Tags: bancheesuberimario draghimassimo ponzellinioscar giannino
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