Giancarlo Cesana. Il mio amico benemerito
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Pubblichiamo l’articolo di Luigi Amicone contenuto nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Lo conosco, lo frequento e lo ammiro da almeno quarant’anni. Ci discuto, ci litigo e imparo da lui da una vita. Si capisce che avevo vent’anni, lui neanche una trentina, e siamo venuti su grandi, sposati, con figli e, infine, vecchierelli, canuti e mai stanchi – «mai mollando la mitraglia» – insieme. Stessa cosa potrebbero dire di lui, il mio amico e compagno di viaggio Giancarlo Cesana, centinaia, forse migliaia di italiani. Incidentalmente, questo medico e professore universitario, questo freudiano e formigoniano impenitente, questo capo longobardo e «braccio destro di don Giussani», come lo chiamavano una volta i giornali, che ha al suo attivo oltre 250 pubblicazioni scientifiche, di cui 170 su riviste peer reviewed, adesso ha dato alle stampe anche un libro (se non sbaglio, il sesto) di stravagante mix tra Leopardi e Durkheim. Ed io che sono? Tra psicologia ed educazione. Libro sul quale, due settimane fa, ci siamo già cimentati. Ma che resta un prodotto che fatica a stare su uno scaffale di una libreria Feltrinelli o Mondadori. Vuoi perché non può essere incasellato in nessun genere particolare. Vuoi perché, nella sua semplicità e chiarezza, rende onore al miglior metodo scientifico, in quanto, come diceva l’epistemologo Karl Popper (citato da Cesana almeno quanto il fondatore di Comunione e liberazione) «la ricerca della verità è possibile soltanto se parliamo chiaramente e semplicemente ed evitiamo tecnicismi e complicazioni non necessari. Mirare alla semplicità e alla chiarezza è un dovere morale degli intellettuali: la mancanza di chiarezza è un peccato e la pretenziosità è un delitto».
[pubblicita_articolo]Così, sfuggendo al canone intellettualistico delittuoso di cui è piena la pretenziosità postmoderna, Cesana assolve il suo “dovere morale” anche grazie alla pregevole cura del testo assicurata dall’amica e collaboratrice Paola Navotti. In sintesi, e prima di prendere questa faccenda da un’altra sponda – quella civica e politica –, a rendere questo libro necessario basterebbe solo la garanzia del decano e principe della psichiatria italiana. Cosa vuoi aggiungere all’autorità di Eugenio Borgna che in prefazione ragiona con entusiasmo di «un libro di grande valore formativo e testimoniale che consente di dilatare vertiginosamente i confini della conoscenza dei principi fondamentali della psicologia e dell’educazione»?
Perciò, benvenuto al rendiconto semplice e chiaro dell’esperienza di una persona comune, per la quale professionalità scientifica, insegnamento, famiglia, corresponsabilità nella conduzione di un movimento, sono state vicende indissolubilmente legate. E che adesso, allo scoccare dei quasi settant’anni, si offrono al lettore come paragone di giudizio e di vita. Dunque. Primo capitolo, “La mia educazione”, trovi lo scatto dell’educazione, l’incontro con un maestro, l’intelligenza rispetto alla piatta istruzione, già nel profilo autobiografico. Che a un certo punto, dopo tanta fame di capire come funziona il cervello e disperato studio della neurofisiologia, si imbatte in una certa persona che parla seriamente e gli rende evidente che non l’opinione, ma il “giusto” è il parente del “vero” («non era tanto importante avere idee proprie, quanto avere idee giuste, ovvero verificate nella loro corrispondenza alla realtà»). Di conseguenza, secondo capitolo, anche la pratica della clinica del lavoro tra gli operai della siderurgia e gli studi sullo stress tra gli impiegati del Comune di Milano, diventano scientificamente performanti quanto più rilevano l’insufficienza della scienza «e, pertanto, inadeguatezza» alla comprensione dell’agire umano.
Se non si vive di amicizia
Terzo capitolo, discussione sulla psicologia, sui limiti del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) e psicofarmaci. In sostanza, e detto da uno che nella sua vita ha fatto anche lo psicoterapeuta, «meglio una pastiglia, sapendo che non guarisce ma attenua il disturbo», piuttosto che psicoterapie che analogamente lo attenuano «ma richiedono più tempo, più soldi e più energie». Segue digressione convincente sulla psicoanalisi. E sul suo caposcuola Sigmund Freud, il cui genio Cesana riconduce al Vangelo dell’«anche i capelli del vostro capo sono tutti contati», per la sua scoperta del continente “Inconscio”. Ma anche qui, se «l’osservazione più acuta e originale di Freud» è «nulla succede per caso», tuttavia, contro ogni fondamentalismo analitico, Cesana ricorda che «se vale l’inconscio deve valere altrettanto il conscio». E qui, a metà volume ci si imbatte in una definizione da mandare a memoria della parola “libertà”. Parola che sbiadisce nell’esperienza quotidiana della folla solitaria, e che per Cesana è «quella dote che l’uomo ha di riconoscere e aderire a ciò che si manifesta come vero, conveniente, sensato per la vita, anche se implica rotture e sacrifici».
Sull’educazione, quarto capitolo, passano in rassegna parole decisive: coscienza, libertà, verità, maestro. Molti sono i consigli utili per l’educazione dei figli. Di notevole attualità il giudizio sulla scuola italiana (che Cesana fa proprio) dato da un giornalino scolastico di ben cinquantasei anni fa (56!). «Il vero aspetto negativo della scuola è quello di non far conoscere l’umano attraverso i valori che troppo spesso tanto inutilmente maneggia». E di crudo realismo sono le conclusioni sul disagio delle relazioni umane primarie. «La solitudine erode la capacità affettiva che è la radice dell’intelligenza. Se non si vive di amicizia, è difficile diventare amici degli altri, di se stessi e delle cose. E la conoscenza impazzisce. I genitori, soprattutto quelli alle prime armi, non debbono stupirsi di essere fragili, ma debbono farsene una ragione, cioè avere il coraggio di domandare e farsi aiutare, innanzitutto dagli amici e da chi ha più esperienza».
E adesso, rientrato nei ranghi del consigliere comunale, passo sull’altra sponda di questa faccenda di un libro in cui scorre un’esperienza di vita e non, semplicemente, la teoria di un esperto. Lato B, dove il fresco di stampa saggio cesaniano si integra alla perfezione (provvidenziale?) con due notizie della settimana appena trascorsa. La prima è che il sindaco di Milano Beppe Sala ha insignito di una onorificenza pari a quella assegnata alle “Stazioni dei carabinieri di Milano” e solo lievemente inferiore alla medaglia d’oro elargita alla prima coppia di gay convolata in “unione civile”, proprio Giancarlo Cesana (il 7 dicembre cerimonia ufficiale in Comune). E, seconda notizia, sulla base di dati obiettivi riguardanti scuole statali e non statali (per esempio i risultati conseguiti dai liceali nei successivi studi universitari) la Fondazione Agnelli ha posto in cima alla classifica dei migliori licei del Milanese il paritario don Gnocchi di Carate Brianza. Che è un altro fiore all’occhiello della biografia del medico, educatore, «braccio destro di don Giussani», essendo stato di questo istituto uno dei principali fautori e fondatori.
Forma ragionevole di democrazia
Come è potuto accadere che, mentre sull’epoca del ciellino Formigoni è calato il sipario e il 22 dicembre prossimo (giorno di sentenza giudiziaria per il Governatore) potrebbe calare la scure di una condanna infamante, il formigoniano uscente da sei anni di presidenza della forse più importante fondazione medico-ospedaliera italiana è stato riconosciuto degno di benemerenza addirittura da un’amministrazione comunale di sinistra, ben sapendo questa amministrazione che Cesana non è stato tra i suoi sostenitori e, anzi, è stato uno dei grandi elettori del capo opposizione in Comune, Stefano Parisi? Intanto la prima bella lezione (e non a caso ancora una volta viene da Milano) che c’è in questa premiazione di un ciellino da parte di un establishment culturalmente e politicamente avversario, è che esiste ancora una “forma ragionevole” di democrazia. E “ragionevole” perché fondata non esclusivamente sulle maggioranze aritmetiche (per cui se comando io tutto quello che proponi tu mi posso permettere di cestinarlo perché i numeri sono dalla mia parte) ma fondata, direbbe il filosofo Jürgen Habermas, su un «processo di argomentazione sensibile alla verità». Secondo, perché in questa notizia c’è in nuce un ravvedimento rispetto alla diffamatoria vulgata mediatica che ha seppellito Cl nel cimitero politico del clientelismo e delle prebende.
Emolumento dimezzato
Quanto alla “verità” civica e politica su Cl, che inizia (anche se parzialmente) ad essere ristabilita nella premiazione di Cesana, bisogna dire quanto segue. Quando nel 2009 la giunta Formigoni nominò Cesana alla guida della Fondazione Policlinico Ca’ Granda, 559 anni di storia e un patrimonio stimato intorno a 1,5 miliardi di euro, nessuna rivoluzione era alle viste. Nessuna spending review obbligava il presidente di un ente pubblico a tagliarsi lo stipendio. E nessun commissario Cantone era lì, col bazooka giudiziario in mano, a controllare come venivano gestiti gli appalti e il patrimonio pubblico.
Ora, il bene che non ha mai fatto notizia – figuriamoci poi se di mezzo c’era Formigoni e i suoi collaboratori – si trova già squadernato nelle due delibere dei due primi Cda, in capo al primo e al secondo triennio di mandato presidenziale. Il Cda del 29.7.09, nel quale il presidente Cesana «chiede che il suo emolumento sia dimezzato del 50 per cento. E così è deliberato». E il Cda del 23.12.12, nel quale il presidente Cesana «conferma la richiesta di dimezzare il suo stipendio, destinando la restante metà alla valorizzazione dei beni culturali della Fondazione. E così è deliberato». Complessivamente, e molti anni prima che la forbice renziana tagliasse gli stipendi dei dirigenti pubblici (unici esclusi i magistrati), nei suoi sei anni di presidenza alla Ca’ Granda (2009-2015) il presidente Cesana ha rinunciato a una retribuzione, prevista per legge, di 600 mila euro versati in forma di donazione alla stessa Fondazione. Ragion per cui oggi egli risulta all’archivio storico della Ca’ Granda nell’elenco dei “benefattori”.
Un patrimonio da far rendere
Bene il taglio spontaneo degli emolumenti. Ma è questo il punto? Neanche per sogno grillino. Il punto è ciò che di non grillino ha realizzato Cesana in Fondazione. E che nessuno prima di lui era riuscito a fare negli ultimi quarant’anni. E nonostante che per sei lunghi anni, per il solo fatto di essere ciellino, Cesana abbia dovuto sorbirsi le lezioni dei moralizzatori di lusso in pubblico. E le minacce dei mafiosi in privato. Il Cda governato da Cesana fino al 31 dicembre 2015 ha realizzato cose che gli sono costate la scorta armata (come la liberazione di stabili di proprietà della Fondazione, che erano occupati abusivamente da 40 anni, e la loro vendita, i cui proventi sono andati a finanziare il nuovo pronto soccorso dell’ospedale Policlinico).
E cose come la messa a reddito di un patrimonio divenuto fattore decisivo per lo sviluppo delle attività della Fondazione in un frangente storico di scarsità di risorse pubbliche e al tempo stesso di crescita dei fabbisogni dell’ospedale Policlinico a cui la Fondazione è legata. Prima della “cura” Cesana, 2.000 unità immobiliari e 85 milioni di metri quadrati di terreni di patrimonio della Ca’ Granda, producevano un risultato di gestione pari a 3,8 milioni di euro l’anno. Che non bastavano a pagare neanche la rata annua del mutuo di 200 milioni che il Policlinico ha acceso per la sua ricostruzione. Figuriamoci i fabbisogni di un grande ospedale.
Spremere le meningi
Oggi, grazie alla creazione di un Fondo Immobiliare che ha permesso di incassare subito (2014) 105 milioni (cioè i soldi per coprire già la metà dei costi di costruzione del nuovo ospedale) e i rimanenti 100 entro otto anni, la cura Cesana ha permesso che il nuovo Policlinico venga consegnato chiavi in mano alla sanità pubblica entro il 2020. Cassa depositi e prestiti, Fondazione Cariplo, sottoscrittori del Fondo Immobiliare Ca’ Granda, investiranno su Milano qualcosa come 350 milioni di euro, tra costruzione del nuovo Policlinico e ristrutturazione degli immobili per fini sociali.
L’epoca cesaniana alla Fondazione Policlinico ha battezzato nel 2013 una due diligence sul patrimonio rurale (85 milioni di metri quadrati di terreni e boschi con circa 100 cascine, distribuiti in 96 comuni di 10 province). Così, se nel 2012, la rendita degli affitti agrari risultava pari allo 0,5 per cento, «con un continuo degrado dello stato conservativo», Cesana e i suoi non sono andati a protestare dai giornali o in Procura a chiedere di indagare. Hanno spremuto le meningi e, nel dicembre 2014, hanno costituito la Fondazione Sviluppo Ca’ Granda (nel cui Cda siedono a titolo gratuito gli stessi membri della Fondazione Irccs), con l’esclusivo scopo di valorizzare il patrimonio e veicolare gli utili alla ricerca sanitaria pubblica. Dopo di che, leggetevi Cesana. Che il prossimo anno, leggerete le memorie di Formigoni. E chissà, magari anche della proposta di un consigliere comunale milanese di dargli l’Ambrogino d’oro.
Foto Ansa
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