
Gaza mon amour
Per l’ennesima volta l’indignazione selettiva del governo francese si è espressa in tutto il suo splendore. Riassunto: il 18 luglio scorso il primo ministro israeliano Ariel Sharon, rispondendo alle domande di alcuni rappresentanti di associazioni di ebrei americani presenti a Gerusalemme, ha proposto «a tutti gli ebrei di venire in Israele, ma è assolutamente necessario per gli ebrei di Francia, che devono muoversi immediatamente», e questo perché in Francia gli ebrei sarebbero vittime di «un antisemitismo scatenato». Perché non ci fossero equivoci sulle origini del problema, Sharon, riferendosi alla Francia, ha aggiunto: «Più o meno il 10 per cento della popolazione è musulmana e questo permette l’espressione di una nuova forma di antisemitismo fondato su dei sentimenti anti-israeliani». Per completare l’informazione va detto che il primo ministro israeliano riconosce al governo francese un’attiva opera d’opposizione all’antisemitismo. Segue la reazione del ministero degli Esteri francese: «Abbiamo immediatamente contattato le autorità israeliane per chiedere delle spiegazioni a proposito di queste parole inaccettabili». Ma, nonostante le spiegazioni date successivamente da Raanan Gissin, portavoce di Ariel Sharon, il governo francese ha fatto sapere di considerare “persona non grata” il primo ministro israeliano. Ora, se è vero che le affermazioni del primo ministro israeliano possono essere considerate esagerate e quindi volutamente polemiche e provocatorie, per esempio facendo supporre l’imminenza di un pogrom contro gli ebrei francesi o stigmatizzando l’intera comunità musulmana francese, va comunque tenuto conto che quella di Sharon può essere considerata una risposta alla precedente provocazione del ministro degli Esteri francese, Michel Barnier, che il 29 e 30 giugno, rendendo ufficialmente visita a Yasser Arafat a Ramallah, ha rotto quel tacito embargo diplomatico che durava da più di un anno e che aveva isolato il leader palestinese. Allora, e per venire alla sostanza, è vero oppure no che in Francia esiste un antisemitismo di una parte delle popolazioni arabe immigrate e dei loro discendenti? In queste pagine abbiamo già parlato delle derive del comunitarismo in Francia e dell’antisemitismo “importato” non solo dai paesi del Maghreb, regione dalla quale provengono la maggior parte degli immigrati arabo-musulmani che vivono in Francia, ma anche dai paesi arabi in generale, che si compiacciono in un antisemitismo militante che semina i propri germi velenosi attraverso programmi televisivi che, grazie alle antenne satellitari, possono essere visti anche in Europa dagli immigrati di lingua araba (cfr Tempi n. 18, 2003 e n. 7, 2004). Tra i sintomi più recenti di una relazione tra quanto succede in Medio Oriente e la deriva comunitaria in Francia possiamo prendere come esempio il sorprendente risultato alle elezioni europee della lista Euro-Palestina che, pur presentandosi in un numero estremamente limitato di collegi, ha trovato seguito in quelli che vengono definiti quartieri “difficili”, ottenendo l’1,83 per cento su scala nazionale. A far pensare che l’indignazione del governo francese sia pretestuosa contribuisce anche un rapporto dei servizi di sicurezza che riguarda proprio i quartieri “difficili”. Consegnato lo scorso giugno al ministro dell’Interno Dominique de Villepin, il rapporto esprime la preoccupazione per la “chiusura” comunitaria in almeno 300 dei 630 quartieri considerati a rischio, e si tratta di quasi due milioni di persone. In questi quartieri, dice il rapporto, dove vivono in prevalenza degli immigrati o figli di immigrati, si registrano episodi di poligamia, ci si veste con gli abiti tradizionali del paese di provenienza o con abiti “prescritti”, o che si crede siano prescritti dal Corano, come la djellaba per gli uomini e il velo islamico per le donne. Sono anche numerosi i graffiti e le scritte antisemite e antioccidentali e ci sono tensioni tra immigrati o figli di immigrati di origini arabe ma nati in Francia, e quindi francesi, e i francesi con la pelle chiara che ancora vivono in quei quartieri e che vengono definiti con disprezzo gaulois, “galli”. Nel rapporto si può leggere: «Queste popolazioni conservano delle attitudini culturali che portano a una certa endogamia, a un mantenimento dei modi di vita tradizionali, all’emergere di modi di regolazione sociale dei conflitti paralleli alle istituzioni e a una vita associativa chiusa, organizzata in funzione dell’origine dei partecipanti». Questa evoluzione viene considerata «difficile da frenare». Preoccupa gli analisti anche la presenza in modo più o meno regolare, in almeno 200 di questi quartieri a rischio, di predicatori islamisti. Il rapporto dice che il proselitismo integralista di questi predicatori «porta i suoi frutti, in particolare sui giovani e i bambini», che frequentano delle associazioni «che operano nei settori sportivo ed educativo (asili, scuole coraniche)». Gli insegnanti delle scuole pubbliche, continua il rapporto, hanno constatato nei loro allievi «una radicalizzazione delle pratiche religiose. Vengono rifiutati dei corsi di storia (in particolare sulla Shoa), di scienze e le attività sportive, mentre le ragazze subiscono da parte degli allievi maschi delle pressioni perché portino il velo». Questo non è un qualche provocatore israeliano a dirlo, ma gli analisti e gli esperti dei servizi di sicurezza francesi. È quindi evidente che la polemica del governo francese contro Ariel Sharon trova probabilmente le sue ragioni nella “tradizionale” politica estera filoaraba che, in questo caso, vale ad Arafat il sostegno della diplomazia francese. D’altra parte, le tensioni tra Francia e Israele non sono una novità ma una costante da quando De Gaulle, nel giugno del 1967, in occasione della Guerra dei Sei Giorni, decreta un embargo sulle armi che, in pratica, ha come solo obiettivo Israele. Si interrompe allora una collaborazione tra la Francia e lo Stato ebraico che durava dal momento della creazione d’Israele e che aveva visto la Francia contribuire in modo probabilmente determinante allo sviluppo del programma nucleare militare israeliano, come spiega Pierre Péan nel suo libro Les deux bombes. Ed è ancora il generale De Gaulle che, il 27 novembre 1967, durante una conferenza stampa, sorprende i giornalisti definendo gli israeliani come «un popolo d’élite, sicuro di sé e dominatore». Questa linea fu seguita anche da Valery Giscard d’Estaing che, nel 1980, dichiarava ufficialmente, primo tra i capi di Stato dei paesi occidentali, che l’Olp di Yasser Arafat andava considerato dal governo israeliano come il legittimo interlocutore e rappresentante del popolo palestinese. Un “legittimo interlocutore”, è opportuno ricordarlo, che dirigeva un’associazione che già allora considerava «la lotta armata… come l’unica via» per liberare la Palestina. In fondo, quello che più infastidisce della diplomazia francese, alquanto “corsara” in verità, è la sua critica del pragmatismo e del cinismo altrui, caratteristiche assai diffuse in particolare nella diplomazia internazionale. Anche la diplomazia francese, sovente moralista e altezzosa, possiede in quantità sia cinismo che pragmatismo e ne fa un uso smodato. Prendiamo qualche esempio recente: gli inglesi rompono con Robert Mugabe che ha fatto del democratico Zimbabwe una dittatura? La Francia si butta a pesce e nel febbraio 2003 Jacques Chirac invita al summit Francia-Africa, a Parigi, il nuovo tiranno, fregandosene del divieto di soggiorno decretato contro di lui dall’Unione Europea. O ancora, lo scorso gennaio, la Francia accoglie in pompa magna il presidente cinese Hu Jintao. Per l’occasione Jacques Chirac dichiara: «Tutto quello che sviluppa le tensioni è pericoloso, ogni iniziativa che può essere interpretata dall’una o dall’altra parte come aggressiva è pericolosa per tutti e dunque irresponsabile». Chirac si riferiva non ai missili cinesi puntati contro Taiwan, ma al referendum voluto dal presidente taiwanese per sapere se i propri concittadini fossero favorevoli all’avvio di negoziati con la Cina per cercare di migliorare le relazioni tra i due paesi. Ed è sempre la Francia che, la settimana scorsa, ha accolto a braccia aperte per una visita di due giorni il ministro degli Esteri sudanese, Mustafa Osman Ismail. Che c’è di male, si dirà. Figuriamoci. È solo che nel Sudan, governato da un regime fondamentalista islamico, due milioni di persone negli ultimi anni sono morte ammazzate o a causa di carestie premeditate che guardacaso hanno colpito le minoranze religiose cristiane e animiste del sud. Oggi quello stesso governo è sospettato di una complice inerzia nei massacri della regione del Darfur, nell’ovest del paese, che hanno causato tra i 20 e i 30mila morti e oltre un milione di profughi: «La più importante crisi umanitaria del pianeta», secondo dei responsabili dell’Onu. Il caso vuole che la visita del ministro sudanese in Francia avvenga proprio mentre il governo americano sta preparando una richiesta di sanzioni contro il Sudan che nei prossimi giorni dovrebbe essere presentata all’Onu. A questo proposito, una fonte diplomatica francese citata da Le Monde venerdì 23 luglio dice: «Bisogna utilizzare le sanzioni con precauzione», perché «una volta lanciate è impossibile tornare indietro» e, «nel caso del Darfur, il rischio è un irrigidimento del governo sudanese». Se si fosse maliziosi si potrebbe pensare che questa inconsueta prudenza della diplomazia francese abbia qualcosa a che fare con gli interessi della compagnia petrolifera francese Total, che ha avuto in concessione dal governo islamista sudanese la maggior parte dei diritti sui ricchi e vergini giacimenti di petrolio delle regioni meridionali. Cherchez l’erreur.
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