
Furet, l’ardito esploratore
Marina Valensise è stata una delle allieve predilette di François Furet. Ha lavorato a lungo con lui a Parigi. Sa bene quel che dice quando scrive nell’introduzione a Gli occhi della storia che il suo maestro «era uno storico prestato al giornalismo e un giornalista che di professione aveva scelto di fare lo storico. Passava da un campo all’altro come se fossero due vasi comunicanti, travasando nei libri di storia l’esperienza del giornalismo e nei giornali il suo tocco da storico». Così che «il giornalista impara dallo storico a zavorrare l’avvenimento col peso del passato; mentre lo storico dal giornalista impara che l’avvenimento va interpretato entro la sua dimensione politica». Uscito dal Pcf al tempo dei fatti d’Ungheria, il giovane studioso inizia nel 1958 una collaborazione con France-Observateur (poi Le Nouvel Observateur, testata “eretica” della gauche, che ebbe il coraggio in tempi non sospetti di denunciare da sinistra il totalitarismo sovietico e i suoi reggicoda occidentali) che sarebbe durata fino alla morte, nel 1997. Un’ampia scelta di quegli articoli esce ora curata dalla sua amica e collaboratrice di una vita, Mona Ouzuf. Non si tratta per nulla di scritti “minori”. Fin dai primi due pezzi, dedicati uno agli storici sovietici, l’altro alla storiografia su Robespierre, compaiono in scena i poli fondamentali degli studi di Furet: la Rivoluzione bolscevica, la Rivoluzione francese, «i due grandi enigmi che per tutta la vita continuerà a esplorare». Con l’ambizione inesausta di penetrare i meccanismi dell’illusione, i processi che conducono a sovrapporre alla realtà il velo dell’ideologia. E sempre con uno sguardo rivolto al presente, con la consapevolezza che l’energia per costruire nel presente nasce da un rapporto leale con il passato. Chi vi si sottrae è condannato all’infecondità: «La sinistra sta morendo per l’attitudine a celebrare il suo passato anziché rifletterci sopra».
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