Finkielkraut insegna a contare i nostri giorni

Di Crescini Flora
06 Ottobre 2005
IL 20 SETTEMBRE SCORSO È USCITO IN FRANCIA IL LIBRO DEL FILOSOFO FRANCESE, "NOI ALTRI, MODERNI" (ELLIPSES, PARIGI). ECCONE UN'ANTICIPAZIONE IN ATTESA DI UNA SORPRESA TARGATA IL FOGLIO E TEMPI

Febbrile riflessione sulla modernità, sulle sue origini e sulle attuali rimozioni e deformazioni del reale, “Noi altri, moderni” è probabilmente il capolavoro di Alain Finkielkraut. Nella presentazione dell’opera, frutto dell’insegnamento all’ècole Polythenique, il filosofo ebreo parigino (forse il più originale e fecondo dei pensatori europei viventi), chiarisce subito il punto di partenza delle sue riflessioni. “Io mi sono messo alla scuola dell’avvenimento” (inteso dal filosofo come il reale che supera ogni profezia e ogni predeterminazione). Finkielkraut parte dalla constatazione che il processo che la ragione moderna “scatena non ha nulla di ragionevole”. “L’uomo moderno. fa la sua prima superba apparizione nel 1482, nell’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola” . Il passo dell’umanista è “l’autentica Bibbia dell’età moderna” , poiché ” mette in bocca a Dio una splendida dichiarazione di indipendenza umana”. “Abolizione del definitivo”, nella dichiarazione picomiranodoliana “l’uomo è l’essere in cui l’agire non scaturisce dall’essere” ma, viceversa “in cui l’essere scaturisce dall’agire”. “Il Dio umanista non dà niente a nessuno, o piuttosto dà a tutti il niente, l’indeterminazione. Facendo della libertà il marchio distintivo dell’umanità, l’umanesimo pone gli uomini in uguaglianza”. Il che vuol dire che il dio umanista è il lontano progenitore dell’attuale nichilismo.
Centocinquant’anni dopo Pico, Bacone afferma che “la dignità dell’uomo non consiste più nel compimento della sua natura, ma nelle sue possibilità infinite”. Come sappiamo alla civiltà umanistico-rinascimentale segue l’epoca delle scoperte scientifiche. La rivoluzione galileiana non mira a decentrare la terra, bensì a farla diventare una star. Realtà è ciò che la ragione può dimostrare. “La rivoluzione galileiana dà il suo congedo al dato: il reale e il vero non si rivelano più, si dimostrano”.
Tuttavia, “una volta lanciato, il metodo si libera presto dai suoi scrupoli. L’idea secondo la quale la razionalità scientifica rappresenta la forma più alta e più perfetta della ragione, s’impone a poco a poco in tutti i campi”. Ed ecco l’uomo moderno, l’uomo che scambia il metodo con l’essere, l’uomo “che abita lo spazio che il metodo gli ha modellato e consuma quello che il metodo produce”. Ma “La vita umana diventa tautologica quando non incontra altro che le tracce della sua attività”. Così, accompagnato da una sindrome di ottimismo crescente, l’ideale del cammino umano viene determinato dalla scienza e della tecnica. Ma c’è un problema. Che il ‘900 squadernerà in tutto il suo orrore. Prima grande guerra mondiale: “Della guerra la tecnica ha fatto una carneficina: venti milioni di uomini uccisi in quattro anni. Della pace la carneficina ha fatto una punizione. Il trattato di pace non ha messo fine alla guerra. Ha dato l’appuntamento ai belligeranti”. “Il pacifismo stesso porta il segno di questa radicalità”. Gli antichi aiutavano l’uomo a sopportare la propria morte, i moderni ad accettare quella degli altri. Dopo la prima guerra mondiale, dopo la rivoluzione bolscevica, dopo la seconda guerra mondiale, dopo l’Olocausto, dopo i genocidi del ventesimo secolo, si capisce che “I Lumi brillano. di uno sguardo ingannatore. La meteorologia della nostra condizione, dice profondamente Kundera, è la nebbia”.
L’ultima conseguenza dell’uguaglianza, come base della condizione umana, è rappresentata dal cancro del multiculturalismo che asseconda la rivendicazione identitaria rivolta contro l’Occidente: “L’ingegnere integralista sa che la terra gira e che il libro della natura è scritto in lingua matematica. Lo sa e vuol far fruttificare questo sapere. Che sia medico, informatico, agronomo, biologo o ricercatore di alto livello, la sua fede intransigente e la minuzia dei suoi rituali si accordano con il dominio razionale delle tecniche più sofisticate. Risponde con l’alleanza del Dogma e del Metodo a una modernità occidentale nata dalla loro rottura”. Dal canto suo l’Occidente è travolto dal suo sogno di progresso infinito. “Il bisogno di stabilità non ha più diritto di cittadinanza”. Per tutti “quel che è costringente è ormai il dinamismo. Ci si muove prima ancora che noi ci muoviamo. Il progresso non è più uno strapparsi dalla tradizione, è la nostra stessa tradizione. Non risulta da una decisione, vive la sua vita, automatica e autonoma. Non è più dominato è compulsivo”

Povero novello Prometeo
Si può dire che l’uomo moderno faccia di tutto per dimenticare, per mascherare la più grande inibizione concernente la vita: il tempo, e più profondamente la fine del tempo, cioè la morte. Il “conosci te stesso” degli antichi equivaleva a dire “conosci che sei mortale”. Mentre la nostra “epoca ha fatto della conservazione della vita il primo dei diritti dell’uomo. Non è più neanche il gusto del rischio che spinge la modernità biomedica a rettificare il corpo umano.: è il sogno della salute perfetta, il desiderio della sicurezza assoluta e di una carne rimodellata al punto tale che non sia più l’ingombrante fardello in cui maturano la fragilità e la morte”. Clonazione: “la speranza incosciente che un giorno si potrà riparare tutto si insinua attraverso queste pratiche. Alla volontà di preservare l’umano come. avvenimento, come apertura al nuovo contro ogni fissazione., risponde l’aspirazione così umana e anche umanistica della fissità inossidabile della macchina. La macchina almeno non muore””. Tuttavia, “la Ragione, che rifiuta di attardarsi accanto alle ferite inflitte, guadagna forse in comprensione, ma perde simultaneamente la nozione dell’irreparabile… qualcosa di essenziale le sfugge”. In breve, osserva il filosofo francese, “l’aridità del cuore non è meno inesatta che immorale”. Già, ma “chi vuole morire?”, incalza Finkielkraut. “Insegnaci a contare i nostri giorni (salmo). Quanto a ciascuno di noi, il fatto di sapere che siamo qui brevemente e che un limite non negoziabile è imposto alla nostra esperienza di vita può anche essere necessario come incoraggiamento a contare i nostri giorni e a farli contare”. Se nell’umanesimo l’uomo si è sentito toccato dall’euforia di essere immortale, forse, nell’epoca post moderna, ha bisogno di essere “toccato della grazia di essere mortale”. Pagina conclusiva: “Noi tutti siamo oramai gli ereditieri, i beneficiari e i continuatori della civiltà dei Lumi, cioè della repulsione nei confronti della notte. Ma l’esuberanza affatica e provoca in certi abitanti del pianeta illuminato il sentimento strano di essere spogliati dell’indisponibile. Da questa spoliazione. (nasce) l’idea insolita, l’inopinato desiderio di salvare l’oscuro e di restituire alla notte una parte del suo comando”. Il che può voler dire: tornare “a riveder le stelle”, il mistero, l’essere, così come un giorno accadde di rivederlo a Roland Barthes, uno dei totem della modernità da cui prende le mosse (e ne suggerisce forse l’intero percorso, il filo rosso del saggio) la riflessione di Finkielkraut.

LA CONDIZIONE UMANA
“Il 13 agosto 1977, Roland Barthes nota nel suo Diario: “Di colpo, mi è diventato indifferente non essere moderno”. Qualche settimana prima di questo congedo, “dato senza preavviso – osserva Finkielkraut – al superIo moderno”, Barthes aveva annotato: “Io vedo la morte dell’essere caro, ne sono preso dal panico etc.”. “L’essere caro è sua madre agonizzante. Barthes ha cessato di dirsi moderno e di fare la navetta tra i suoi criteri e i suoi gusti allorché ha visto morire sua madre. ‘Di colpo, mi è diventato indifferente non essere moderno’: il suo cambiamento non proviene da una riflessione dottrinale, ma da un avvenimento. Avvenimento intimo e infimo a confronto dei valori indissolubilmente politici e artistici in gioco nella sua adesione alla modernità. è un lutto privato che ha condotto Barthes a denunciare la sua immagine pubblica. è una pena, che non è nemmeno una pena d’amore, è un dolore atroce ma banale che ha avuto ragione delle precauzioni di Barthes e del suo conformismo. Perché? Perché il lutto ha fatto di lui un sopravvissuto, e non si può essere al tempo stesso sopravvissuti e integralmente moderni. Perché nel semplice fatto di sopravvivere a ciò che si ama c’è la smentita alla rappresentazione del tempo che veicola l’idea stessa di moderno. Il Moderno, è colui a cui il passato pesa. Il sopravvissuto, è colui a cui il passato manca”.
Dunque, altro che eccezione all’essere. Altro che padrone del proprio destino. Altro che sei secoli di pretesa che “l’uomo è l’essere in cui l’agire non scaturisce dall’essere”, pretesa che inevitabilmente, prima o poi, sfocia, non nell’imparare a morire, ma nell’imparare a giustificare la morte altrui. In fondo, ogni bambino che viene in questo momento alla luce, è un sopravvissuto. Tanto più lo è l’uomo che sopravvive, fin quando sopravvive, a ciò che ama. Finkielkraut è come se squadernasse in quasi quattrocento pagine l’osservazione di Luisa Muraro, “L’aver bisogno è premessa di tutta la faccenda, non bisogno di questo o di quello, ma di tutto”. In fondo, la condizione umana è tutta qui.

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