Filippini d’Italia

Di Marina Corradi
14 Agosto 2003
i loro uomini sono i nostri “tuttofare”. le loro donne le nostre domestiche e baby sitter. sono i figli di un popolo laborioso, attaccato alle proprie tradizioni e alla propria fede. cattolica. viaggio tra il gruppo di immigrati che sostiene il belpaese

Caravaggio (Bergamo) – La canicola toglie il fiato, e non c’è scampo al sole allo zenith nel mezzogiorno di una domenica di agosto. Pochi pellegrini accaldati scendono al Sacro Fonte. Là sotto, dove un giorno di maggio del 1432 la Madonna «materna apparve, nunzia di conforto e di pace», nella penombra sgorga l’acqua miracolosa. I fedeli riempiono le bottiglie, si segnano devoti. Improvvisamente, come un subbuglio, una folata di vento: entrano veloci, quasi di corsa, tre filippini in tenuta da ciclisti. Giovanissimi, sudati come da una lunga pedalata, si precipitano alla Fonte. Prima si fanno il segno della Croce; poi con quell’acqua si bagnano i corti capelli nerissimi, la faccia sudata, e infine la bevono con un’avidità gioiosa e innocente – con la sete che si ha, a vent’anni, d’estate, dopo una corsa in bici. Si segnano di nuovo, e già sono andati.

Alla messa (in anticipo) per trovare posto
Il santuario di Caravaggio ogni domenica è pieno di filippini. Forse perché è santuario mariano, e i filippini sono devoti da sempre alla Madonna. Forse per un’eco di miracoli che li ha raggiunti, e in cui a loro volta sperano. Si presentano alle Messe di metà mattina con un buon anticipo: perchè per trovare posto a sedere per famiglie di dieci o quindici persone non si può arrivare in ritardo. Li vedi entrare e allineare nei vecchi banchi di legno scuro file di sei o otto bambini tra fratelli e cugini. Tutti vestiti bene, “della domenica”, come si diceva una volta da noi, quando non esisteva il week end, e non si usavano le tute da jogging. Le madri e i padri ai due capi della panca, fieri di tutti quei figli. I più piccoli, annoiati dalla Messa, fissano i loro immensi occhi neri sugli angeli scolpiti sui portali, sugli stucchi d’oro delle colonne; ridono, ma di nascosto e a bassa voce, perchè il padre non gli toglie lo sguardo severo di dosso. Osservi queste famiglie interminabili di fratelli e cugini e nipoti, traboccanti di bambini, e i loro capelli neri e lucenti e gli occhi asiatici, e capisci che una nuova Europa è già in silenzio cominciata, e non importa se parla tagalog. Sa il Padre Nostro, ed è abbastanza.

Quando avevamo noi la valigia di cartone
Per don Giancarlo Quadri, responsabile per la diocesi di Milano della pastorale dei migranti, l’immigrazione cristiana in Italia è una «costellazione di rinascita: accanto ai filippini, che sono oltre ventimila solo in Lombardia e fortemente praticanti, ci sono i latinoamericani, per i quali abbiamo riaperto al culto, accanto all’Università Statale, l’antica chiesa di Santo Stefano, che ogni domenica è gremita. E c’è la nuova onda dell’Est, i rumeni, i moldavi, le ucraine, che cominciano ad avere le loro cappellanie. Spesso mi trovo a pensare che cominciamo ad assistere a una sorta di ritorno di ciò che l’Europa ha seminato coi suoi missionari, nei secoli passati».
Non tutto è oro. Don Quadri racconta di come sette di ogni tipo assedino le popolazioni immigrate, ghermendo adepti grazie alla loro ignoranza. Come le seconde generazioni, nell’impatto con l’Occidente, facilmente perdano l’eredità dei genitori. E quanto sulle facce di certe bande di adolescenti filippini che ciondolano attorno al sagrato del Duomo tutto il giorno, «si legga già tutta un’altra storia». D’altra parte, ti chiedi, pensando alla Milano di quarant’anni fa, quanti dei figli di quelli che arrivavano dal Sud con le valige di cartone se ne andavano girando sbandati in piazza Duomo? Comunque, ora è gente di Milano, e “terroni” li chiama solo Bossi.

Libera a malo
Lombardi, “terroni”, filippini. La stratificazione delle immigrazioni si vede bene a Caravaggio, luogo di popolo per eccellenza. Vedi i bergamaschi, e quelli di Lodi e di più giù con la parlata più larga; e poi le ampie famiglie con i vecchi che conservano gli accenti del Sud, e i nipoti in tutto milanesi; e poi questi cortei di filippini coi ragazzini che già balbettano in italiano. E questa gente si mescola tra i banchi del santuario consumati e lisciati dalle ginocchia di generazioni di pellegrini, sotto le volte dove c’è scritto: «Libera a malo», che è l’essenziale. Scendono tutti assieme pigiandosi l’un l’altro al Sacro Speco, accendono una candela, dicono un’Ave Maria nella lingua che sanno, s’alzano, vanno. Ardono tutte assieme le candele.
Fuori, nella grande corte, sono eleganti e belle, le filippine nel giorno di festa. Qualche famiglia ha già una Fiat di seconda mano, come gli operai italiani negli anni Sessanta. Hanno alle spalle anni di stenti da dimenticare; anni di cui, orgogliosi, non parlano volentieri. Il viaggio clandestino da Manila a qui è costato ad ognuno molto caro. Anni e anni di lavoro. Dieci anni fa, oltre sei milioni di lire, quando uno stipendio in patria era di 200mila lire al mese. «Si vendeva tutto, la casa, i piccoli gioielli, tutto» racconta Louise «Il percorso più frequente passava per Medjugorje. Dopo il pellegrinaggio, un taxi ti portava vicino alla frontiera con l’Italia. Poi erano quattro o cinque ore a piedi, di notte, per le montagne. Quando sono arrivata io, c’era la neve. Non l’avevo mai vista. Avevo freddo, e una grande paura. Non so come, siamo passate. Ma per mesi, ogni volta che vedevo un vigile, e persino i controllori dei treni, io tremavo per la paura».

Siamo in 97
Sono arrivati nascosti nei vagoni letto dei treni e nei bauli dei taxi, terrorizzati, come criminali colpevoli di chissà quali delitti. Lasciando a casa figli bambini per venire a curare i nostri, vecchie madri che non hanno più rivisto, per venire a curare le nostre. Sono arrivate e si son messe a lavorare tanto. «Gli italiani l’hanno visto, e ci rispettano» dice Eva «noi, qui, ci stiamo bene». Han facce forti, da matriarche, le donne più anziane. Ce n’è, tra loro, di quelle che hanno portato in Italia un pezzo intero di mondo. Eden ha 58 anni. Ne aveva 38, e cinque bambini, quando decise di lasciare il suo paese, nel Nord delle Filippine, perché non riusciva a dargli da mangiare. «Un giorno ho detto: vado. Sono partita da sola e sono arrivata a Palermo, con il visto turistico. Mi ricordo quel mattino, sola e così lontana dai miei figli, senza nessuna certezza se non quella di essere, dopo pochi mesi, una clandestina. Ho trovato un lavoro, naturalmente in nero, 200mila lire d’allora per tutto il mese a servizio. Mia madre è morta, e avrei voluto tornare per il funerale ma la signora me lo ha impedito: se parti, m’ha detto, non ti riprendo. Poi sono andata a Milano e lì mi ha assunta un sacerdote che mi ha aiutato molto. Ho fatto arrivare mio marito e i miei figli, che ora sono tutti sposati. Ho nove nipoti. Tutta la mia famiglia, sorelle, zii, cugini, tutti poveri come eravamo noi, si è appoggiata a me per venire in Italia. Sono tutti qui, lavorano tutti. Siamo in 97. Io sono andata a Lourdes. Non per chiedere nulla. Solo per ringraziare».

Dio (per i filippini) non è morto
A Caravaggio vedi che è arrivato un popolo. Da molto lontano, è arrivato un popolo cristiano. Povero ma ricco di figli, quanto noi siamo ricchi e avari di bambini. Altri ne vengono, ne verranno, più disperati, dall’Est, dalla Romania, dalla Moldavia, dall’Ucraina. Ci sarà chi griderà allarmato che bande di miserabili stanno invadendo la civile Europa – il che sotto certi aspetti potrebbe anche esser vero. Sembra però che alcuni almeno di questi poveracci in cerca di pane, naufraghi della tragedia del socialismo reale, dopo decenni di ateismo di Stato abbiano conservato vivo un desiderio. Chissà che l’Europa in cui vent’anni fa Dio era dato per morto, non ridiventi cristiana grazie all’invasione degli ultimi dei poveri.

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