
Fifa blu del pericolo giallo
Quest’estate fanno ormai 106 anni esatti da quando il kaiser Guglielmo II di Germania lanciò lo slogan del die gelbe Gefahar, “il pericolo giallo”. È una paura che nell’inconscio collettivo dell’Occidente è rimasta radicato nel profondo, se si pensa che Hollywood ha lanciato un kolossal come Pearl Harbor proprio mentre da un lato la Cina minaccia gli Stati Uniti per la storia dell’aereo spia, dall’altro il premier giapponese Jumichiro Koizumi annuncia di voler cambiare la costituzione imposta dagli stessi Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, e che impedisce al Paese di avere un esercito. In effetti lo ha lo stesso, camuffato col nome di “Ente di Autodifesa”. L’ulteriore obbligo costituzionale di non destinare più dell’1% del Pil a spese militari è bastato a fare del Giappone uno dei Paesi più armati dell’area, se si pensa a quel che significa una simile percentuale applicata alla seconda potenza industriale del pianeta. Koizumi ha annunciato che, ad agosto, andrà a visitare un noto tempio shinto dedicato agli «eroi della seconda guerra mondiale», provocando le fiere proteste di Corea e Cina. Dall’altra parte, la Cina, che protesta contro il «ritorno del militarismo giapponese», ha non solo la bomba atomica, ma ha anche organizzato la prima “brigata informatica” della storia militare mondiale, e i pensatoi del suo Stato maggiore impostano seriamente il problema del «poter vincere una guerra con gli Stati Uniti».
Attila, Sandokan e l’eternità mafiosa
Era stato dopo la vittoria del Giappone sulla Cina nel 1895 che Guglielmo II aveva spedito un quadro a suo cugino Nicola II, zar di Russia. Sviluppando un disegno dell’imperatore, un pittore di corte aveva rappresentato un Buddha dal truce sogghigno che, cavalcando un drago, seminava lutti tra alcune città del vecchio continente. Ma contro la sua furia si ergevano sette giovani donne in peplo, colte nell’atto di sguainare la spada all’esortazione dell’Arcangelo Gabriele. Guglielmo II vi aveva accompagnato una didascalia: «le potenze europee, capeggiate dai rispettivi geni, che si uniscono per resistere all’assalto del buddismo, dei culti pagani e della barbarie e per difendere la croce». Per la verità, nella guerra appena combattuta i “gialli”, più che «minacciare la croce», si erano ammazzati tra di loro. Cinque anni dopo, però, la rivolta xenofoba dei boxers avrebbe scatenato una caccia all’europeo, al missionario e al convertito. «La vostra sia una lotta senza quartiere e senza prigionieri!», avrebbe detto il 27 giugno il kaiser al contingente tedesco in partenza. «Come gli unni guidati da Attila, che mille anni or sono si guadagnarono un nome che ancora oggi, nella tradizione e nella leggenda, è sinonimo di terrore, così voi dovrete imprimere per mille anni il nome tedesco nella Cina». I boxers sarebbero stati dispersi con una facilità irrisoria. Ma nel 1905, quando Nicola II avrebbe cercato di seguire i consigli del cugino col “neutralizzare” il Giappone, avrebbe preso a sua volta quello schiaffo monumentale da cui poi sarebbe iniziata la sua dissoluzione. Ed è tra l’insurrezione dei boxers e la guerra russo-giapponese che l’incubo del “pericolo giallo” si piazza nell’immaginario collettivo europeo. Nel 1903 Emilio Salgari scrive un romanzo sulle Meraviglie del 2000, a proposito di due scienziati che si fanno ibernare per risvegliarsi dopo 100 anni. Così scoprono che tutti i paesi colonizzati sono diventati indipendenti, ma che la Cina è stata spartita tra gli europei «appena in tempo per evitare una terribile invasione», e che malgrado ciò torme di immigrati cinesi sono ormai in tutto il globo, «fin nel centro dell’Australia». C’è un’immagine dei ristoranti e dei venditori cinesi che sbucano da tutte le parti che dovrebbe forse indurre a una maggior rivalutazione del papà di Sandokan e del Corsaro Nero. Nell’anno 2001, chi può negare che in Italia i locali dove si offrono involtini primavera e nidi di rondine sono ormai più numerosi delle pizzerie? Dalla Cina vengono oggi un terzo di tutte le valigie e i portafogli prodotti nel mondo, un quarto dei giocattoli, un ottavo delle scarpe e dei vestiti. C’è chi prevede che entro il 2010 il “mandarino” avrà soppiantato l’inglese, come prima lingua su Internet. E sul fronte illegale, a differenza delle mafie italiane e dei cartelli sud-americani, le Triadi cinesi non sono solo la più numerosa organizzazione criminale al mondo, con oltre 30 milioni di aderenti, ma sono anche quella che più riesce a non far parlare di sé. C’è voluta la Dia per accertare che fin dal 1997 se ufficialmente tra i 10.000 cinesi clandestini che fabbricavano borse a Campo Bisenzio in 10 anni non era morto nessuno, contro gli almeno 650 decessi che avrebbero dovuto esserci per mera normalità statistica, era perché le stesse Triadi rivendevano i loro documenti ai nuovi clandestini, sull’assunto che agli occhi dei poliziotti europei «i gialli sono tutti eguali». La via mafiosa all’immortalità…
Acqua passata? Qualche altro esempio
Del 1908 è il romanzo di Herbert George Wells La guerra nell’aria, in cui si prevede la Prima guerra mondiale. Dopo un tentativo tedesco d’invasione degli Usa sarebbe stato il finale fendente di una federazione cino-giapponese a entrambi i contendenti a provocare il collasso finale della civiltà. Nel 1911 Sax Rohmer scrive a sua volta il primo racconto della serie del dottor Fu Manchu, che soprattutto al cinema diventerà la più efficace personificazione del “pericolo giallo”. «Speravo di dare alla Cina quel posto nel mondo a cui le danno diritto la sua intelligenza, la sua industriosità e i suoi ideali», è la giustificazione che pronuncia Fu Manchu per i suoi orrendi crimini. Ha gli occhi a mandorla, la pelle gialla e il nome di una dinastia cinese il tiranno Ming, affrontato da Flash Gordon nei fumetti di Alex Raymond degli anni ’30. Appena qualche mese prima di Pearl Harbor Robert Anson Heinlein, in Sesta Colonna, immagina un gruppo di scienziati-militari che lotta per liberare l’America dall’impero cino-giapponese che l’ha sottomessa dopo un attacco a sorpresa con bombe nucleari. Acqua passata? È di appena quattro anni fa Dragon Strike: The Millennium War, saggio di due giornalisti esperti di Medio Oriente sulla possibilità di una “guerra del millennio”, nel doppio senso di guerra dell’anno 2000 e biblico di “guerra dell’Apocalisse”, provocata dal “colpo del dragone”: un’offensiva della Cina contro il Vietnam, per una ripresa delle beghe di confine che già portarono i due paesi comunisti alla guerra del 1979. Uno scenario cui molti hanno ripensato, in occasione delle minacce di “bombardamento nucleare” a Taiwan che Pechino ha reiterato più e più volte, negli ultimi anni.
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