![Gli equilibri che cambieranno (o sono già cambiati) con l’insediamento di Trump](https://www.tempi.it/wp-content/uploads/2025/01/donald-trump-elon-musk-ansa-345x194.jpg)
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Marina Garlaschè – Ancona
Il volume di Paolucci non l’abbiamo ancora letto, ma quello di Carmen e Davide sì. Bellissimo. E ne approfittiamo per segnalare a tutti la festa-presentazione a Milano il 17 dicembre alle 20.30 al teatro Oscar Desidera (via Lattanzio 58/a).
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La maestra ‘atea’, il tacchino, l’asino e la stalla…
In un tempo in cui i maestri dichiarano ai bambini che «Dio non esiste perché la scienza dice così…» io conosco un’altra scienza, un’altra scuola, un altro Dio. Conosco un Dio-bambino presente in questo momento storico così efferato eppur non diverso da quello di quella notte in quel buco del mondo che si chiama Betlemme, che noi abbiamo più volte frequentato in questi ultimi anni… Noi siamo quelli che hanno visto e udito come i pastori quella notte. Certo, talora siamo stati addormentati, come la statuina del presepe che più ci conforta, il dormiente: anche lui c’era quella notte, anche lui stava nel presepe dentro la sua grotta meschina e appartata e non sentì, non vide, come quella “maestrina scientifica” che non vede ancora e dunque orgogliosamente misconosce il Mistero di un Dio fattosi Uomo anche per lei.
Il Natale si pone come evento, come fatto accaduto, registrato in una cronaca storica ineccepibile come tutto il Vangelo. Le parole con cui Luca storicizza l’inizio della missione di Giovanni che prepara la venuta di Gesù ci sorprendono per dovizia di particolari: «Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide…» e mi fermo qui anche se l’evangelista va ancora avanti come volesse legarci per sempre a una storia con date, nomi, luoghi. Incontestabile!
Il Natale si impone anche nelle sue derive consumistiche che a me non disturbano più di tanto, se dicono di una esagerazione di Dio per noi. Per questo non mi tange la stantìa polemica sui vari modi di festeggiare il Natale e mi ritrovo piuttosto nelle infantili parole del poeta Thomas Stearns Eliot che, ne La coltura degli alberi di Natale, raccomanda di lasciare i fanciulli in «spirito di meraviglia» dentro l’incanto dei primi doni ricevuti, «nel loro profumo inconfondibile e eccitante». E addirittura parla dell’oca e del tacchino che accompagnano l’Evento atteso perché tutte queste memorie di emozioni annuali possano concentrasi, nell’ottantesimo anno dice lui per dire l’ultimo, in una grande gioia, quella dell’incontro finale con Lui: «Perché l’inizio ci ricorderà la fine e la prima venuta la seconda venuta»!
Noi credenti siamo uomini carnali ed abbiamo bisogno di qualcosa che tocchi i nostri sensi, che ci coinvolga direi anche nel gusto oltre che nella vista e nell’udito, nel fiuto e nel tatto. Noi che abbiamo visto e udito e le nostre mani hanno toccato…
Niente scientismo, tutto esperienzialmente galileiano: fatto evento cronaca, sapore gusto profumo, dono regalo, causa effetto.
Come mi ritrovo nella concretezza poetica dello spagnolo Juan Ramon Jimenez, Nobel per la letteratura nel ’56, che ci racconta: «Un asino tenero si allietava nel caldo richiamo… mentre la luna declinava in un tramonto d’oro e di seta». E poi la strabiliante immedesimazione finale: «Il mio petto palpitava come se il cuore avesse avuto vino… Aprii la stalla per vedere se Egli era lì. C’era!».
C’era, signora maestra, è l’ultima parola della poesia che potrebbe fare in classe quest’anno! Buon Natale.
Piergiorgio Bighin via email
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Il Paraguay è un paese di quasi 7 milioni di abitanti, di cui 1.100.000 minori di età compresa tra i 5 e i 15 anni che fanno parte del sistema educativo statale. Questo sistema è tra i peggiori in America Latina e nel mondo. Il tasso di abbandono nella scuola primaria raggiunge il 40 per cento e nella scuola secondaria sfiora il 60 per cento.
Nel 2020, il ministero dell’Istruzione decise di chiudere quasi 1.600 aule e sezioni. La mancanza di docenti e di infrastrutture fece sì che il sistema fu costretto ad “accogliere” gli studenti in tende o aule di fortuna (spesso pericolanti) e comunque inadatte a svolgere le lezioni (basti pensare che in Paraguay in alcuni mesi dell’anno la temperatura raggiunge i 40 gradi).
Corruzione e cattiva gestione sono le cause che hanno portato a questa situazione.
Circa sette anni fa, nelle scuole del Paraguay è stato distribuito materiale didattico (libri e quaderni) per aiutare gli studenti con gravi problemi di ortografia. In realtà, si trattava di strumenti di propaganda (in particolare l’ideologia di genere) con l’intento, neppure troppo mascherato, di sottrarre l’educazione alla famiglia per accentrarla nelle mani dello Stato.
Il ministero dell’Istruzione, che pure pareva implicato nella distribuzione di quegli strumenti, ne prese le distanze, sostenendo di non aver speso un centesimo per quel materiale, che era stato “regalato” dall’Europa. Un ricco regalo: 86 milioni di euro! A tanto ammontava la cifra che il primo mondo donava ai poveri bambini paraguaiani per imparare a scrivere meglio.
In realtà si trattava di un chiaro tentativo di imporre un’agenda politica e ideologica a partire dalle aule scolastiche.
Ma, a partire dallo scorso settembre, il “Piano di Trasformazione Educativa” è stato smascherato per l’iniziativa di gruppi liberi di persone che, grazie anche al sostegno della Chiesa cattolica e di altre fedi, sono riusciti a bloccarlo. Migliaia di persone sono scese in piazza, non per negare la necessità di un cambiamento nel sistema scolastico paraguaiano, ma per chiedere di essere rispettate.
La reazione del Governo non si è fatta attendere e gli oppositori sono stati tacciati di essere retrogradi e di non essere al passo coi tempi. Tuttavia, la “Trasformazione” è stata rimandata, anche se resta nell’agenda delle azioni del governo.
Il ripudio dell’ideologia ha fatto emergere un fatto incontestabile. Sebbene la società paraguaiana sia meno “cristiana” di un tempo, qualcosa nel suo profondo è rimasto.
Pensavo alle Riduzioni dei gesuiti dove tanti uomini e donne sono stati educati al realismo e a una fede che incide nel presente. Oggi rimangono solo ruderi di quelle strutture, tuttavia quell’educazione è ancora fortemente sentita dalla popolazione. Sono dovuti passare 300 anni perché il popolo paraguaiano potesse verificare che quanto era accaduto in un incontro reale tra culture poteva diventare un criterio inalienabile di vita.
C’è solo da augurarsi che questi tentativi di “Trasformazione” educativa non continuino, anche se penso che, prima o poi, ce la faranno a far passare qualche legge di questo tipo. Ma l’opposizione del popolo avrà comunque avuto molto senso: così si impara ad affrontare concretamente la realtà alla luce del proprio destino.
Patricio Hacin via email
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Pan e latte
Signore, ti ringrazio del latte (e del vino…)
Il latte fresco appena munto è sempre stato il mio alimento preferito.
Facile, perché abbiamo sempre allevato mucche e quindi in casa nostra mai è mancato. Almeno fino a qualche anno fa: ora mi sono dedicato alle vigne e al vino (non è forse il “latte” della terra?) ma ricordo le belle tazze di latte freddo con il “cao” di panna sopra. Però le mie figlie hanno fatto in tempo a venire svezzate con il mio latte di vacca. Quanto ne ha bevuto Maria! E quanto le piace ancora!
Nonno Beppino “Triàngol” aveva sei vacche nella piccola stalla in Callonga, al di là del cortile chiuso di casa Rossetto. Teneva il latte della sera nei secchi, prima di prendere il frigo, e la mattina, dopo la mungitura lo portava alla latteria turnaria.
Qualche volta nonna Marianna faceva delle belle formaggelle che conservava al terzo piano della casa “dei Chinét”, dove ora abita mia cugina. Anche mia mamma ne ha fatte tante, al primo sale. Un paio di volte anche un formaggio dolce.
Nel secchio pieno dalla sera precedente, due dita di grasso denso e profumato: che piacere immergervi un dito, da portare alla bocca untuoso e gustoso. E bere direttamente dal secchio!
Ho sempre mangiato latte mattino e sera, coi biscotti secchi o fette di “fugassa”.
Non con la polenta, questo mai, ma dicono sia un buon piatto.
Zio Saverio, lo zio di mamma, quando veniva a prendersi il vino da Milano, si fermava a dormire da noi e voleva per cena sempre “poénta e làte”. Diceva che gli ricordava di quand’era bambino.
Era la colazione (e anche la cena…) per molti ragazzi fino a pochi decenni fa.
Mi raccontavano di alcune avventure a scuola: la maestra aveva preso l’abitudine di chiedere ai ragazzi che tipo di colazione facevano al mattino, una specie di educazione alimentare.
Certo erano i primi anni del boom economico, giravano i biscotti, la marmellata e le fette biscottate, e i “pavesini” reclamati dagli operai, simbolo di una borghesia da imitare.
Ma un alunno faceva colazione ancora con polenta e latte e tutti lo deridevano, compresa la maestra.
“Mamma, non voglio più andare a scuola!”
“Perché Pierino?” “Perché mi ridono dietro quando dico che faccio marenda con polenta e latte”
“E tu digli che mangi latte e biscotti!”
Così la mattina seguente, per non farsi deridere, alla fatidica domanda “Come fai colazione?”
Pierino rispose:“Latte e biscotti”
“Quanti?”
“SETTE FETTE!!!”
Quanti figli sono cresciuti con il nostro latte. Quante madri venivano la sera con i vasi per la colazione di bambini e mariti. Latte fresco, puro, profumato e gustoso, nutriente.
C’era anche qualche “cliente” affezionato, come Luisa che ne prendeva due litri quando faceva il baccalà alla vicentina.
Quando producevamo latte, tramite la Caritas abbiamo anche aiutato qualche famiglia bisognosa, generalmente di origine africana, qui in cerca di lavoro con moglie e figli, e nel nostro piccolo abbiamo doanto loro un po’ di latte, almeno possono far colazione i bimbi. Un piccolo gesto concreto di solidarietà. Un po’ di sostegno a queste giovani madri.
Un episodio mi è particolarmente caro e ve lo racconto come se fosse oggi:
Sono i giorni di Avvento per il Natale ormai vicino, lo viene a prenderne una signora marocchina che vive qui con i due piccoli figli. Sola, il marito perso in giro per l’Europa a “catàr fortuna”, non conosce una parola in italiano, e manda il figliolo più grande a ritirare il buon latte. E mia mamma, che conosce i bambini (noi siamo in quattro) e che fra poco sarà nonna un’altra volta, ogni tanto gli regala una cioccolata, un pacchetto di biscotti, le caramelle.
Cosa volete che sia un po’ di latte fresco? Per noi è un piccolo contributo, per loro è la colazione assicurata. Per noi è ben poca cosa, visto il prezzo all’ingrosso del latte. Per loro è nutrimento.
Ma stasera è diverso.
Stasera ci è stata data una lezione.
Stasera comprendo il significato dell’offerta dei due spiccioli della vedova.
Il piccolo Ahmed è arrivato, con le bottiglie vuote e un sacchetto di carta rigonfio.
All’interno, una pagnotta, fragrante, ancora calda.
Un pane, un pane arabo profumato e invitante. Per noi.
A mia mamma son venuti gli occhi lucidi: questa povera famiglia, che nulla ha di che vivere, straniera in un paese straniero, che ci dona il pane.
E noi, che siamo tradizionali e insieme multiculturali, stasera lo mangiamo con il salame.
E poi farò “soppetta col vin mòro”.
E se ne avanzeremo, domattina lo intingo nel latte caldo.
“Pan e làte”.
Luca Rossetto via email
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