Femminicidi, il ceffone di La Russa e l’educazione

Di Fabio Cavallari
12 Giugno 2023
Ad un atto violento non puoi rispondere con lo stesso mezzo perché ne vanifichi il fine. La questione più importante è educativa
Un momento dei funerali di Giulia Tramontano, la 29enne uccisa dal fidanzato a Senago, presso la chiesa di Santa Lucia a Sant'Antimo (Na), 11 giugno 2023 (Ansa)
Un momento dei funerali di Giulia Tramontano, la 29enne uccisa dal fidanzato a Senago, presso la chiesa di Santa Lucia a Sant'Antimo (Na), 11 giugno 2023 (Ansa)

«Se un genitore vede il figlio che manca di rispetto a una ragazza, penso che debba tiragli un ceffone, forte. Se lo ricorderà», ha detto Ignazio La Russa, a margine dei tanti delitti e dibattiti sul femminicidio. La frase, fuori dalle zone del “quartierino radical chic”, credo che abbia potuto ottenere il plauso incondizionato di gran parte dei cittadini.

Le espressioni di rimbrotto sono arrivate da sinistra, sostanzialmente per due motivi: 1) perché l’ha detto La Russa. 2) perché La Russa ha il busto di Mussolini in casa. Altri hanno l’effige del Che, qualcuno di Rosa Luxemburg e di Gramsci. È vero, latitano Stalin e Lenin, ma Marx e Mao Tse-Tung assicuro che si possono trovare.

La risposta non può essere repressiva

Stiamo sulle parole del presidente del Senato. La Russa risponde a fatti tragici con una risposta banale e, ancor più semplicemente, trova una soluzione nell’aumento delle forze dell’ordine per i reati di genere, e l’aggravamento delle pene. Il problema è ben più articolato e La Russa, da politico navigato, lo sa bene, e infatti tenta anche una risposta pubblica: una manifestazione di soli uomini contro la violenza di genere. Però il problema che si vuole affrontare non si risolve con una risposta repressiva, di ordine poliziesco, con l’aumento delle pene. Perché, come spesso ci troviamo a constatare, al di là delle riduzioni massmediatiche e di pancia, ci troviamo al cospetto di un problema che condensa in sé una serie di questioni antropologiche, educative, che attengono al riconoscimento del proprio “io”, della propria capacità di elaborare il lutto della perdita (una donna che ti lascia).

Dipendenza dall’altro

È questa complessità che va indagata altrimenti non ci sarà mai un’inversione di rotta. Il punto è: perché devi arrivare a dare quello schiaffone? Tralasciando che ad un atto violento non puoi rispondere con lo stesso mezzo, perché ne vanifichi il fine, lo snodo più importante, come hanno detto in molti, è educativo.

Ci sono due punti su cui bisogna iniziare a lavorare: uno è il concetto del limite (e riguarda sostanzialmente gli uomini), il secondo è l’inaccettabile acquiescenza di molte donne, non alla violenza bruta, ma ai segnali quasi “bonari” che stanno alla base dei processi di violenza, il controllo del cellulare (che è una vera e propria violazione di uno spazio privato), il controllo degli spostamenti o la subordinazione economica, ad esempio.

Massimo Recalcati afferma che la violenza sulle donne è essenzialmente la distruzione della Legge della parola, come Legge che unisce gli umani nel riconoscimento dei soggetti. «Questa Legge non è scritta, non appare sui libri di diritto, non è una norma giuridica. Ma questa Legge è il fondamento etico di ogni civiltà, è la Legge delle Leggi. Essa afferma che l’umano non può godere di tutto, non può sapere tutto, non può avere tutto, non può essere tutto. Afferma che ciò che costituisce l’umano è l’esperienza del limite, l’esperienza del tutto. E quando questo limite viene valicato e prevale l’aspirazione idolatrica a essere tutto, c’è distruzione, odio, rabbia, dissipazione, annientamento della vita di sé e dell’Altro». E ancora: «L’esperienza dell’amore mina sempre la nostra identità rendendoci mancanti. Destabilizza la nostra autosufficienza rendendoci dipendenti dall’Altro: non ti amo perché mi manchi, ma mi manchi perché ti amo. Il ricorso alla violenza può essere il tentativo disperato di evitare il rischio della perdita e della fine che ogni amore comporta, imponendo all’amato una sorta di laccio indissolubile. Anziché confrontarsi con l’assoluta liberà dell’Altro preferisco farmi padrone assoluto di questa libertà».

Educare al limite

Questo è il tema è culturale, educativo, di testimonianza attiva delle figure genitoriali, della scuola (non con i corsi per la sessualità). È un lavoro complesso e faticoso che coinvolge l’interezza della persona (uomini e donne).

La proposta di La Russa di una manifestazione di soli uomini (che si battono sul petto il “mea culpa”) non è la soluzione, anche se espressa credo con sincero auspicio. Bisogna manifestare, se si vuole farlo, assieme, accanto, appiccicati, complici e fraterni. Il problema non è degli uomini, ma dell’umano.

Abbiamo bisogno della voce, del corpo, dei gesti delle donne, per educare al limite, per educare a sé. È un percorso lungo, che nessuna azione repressiva, di per sé, (un conto è la certezza della pena) potrà risolvere. Bisogna partire prima, scavare nella genesi, indagare il proprio “io”, la propria solitudine, la propria incapacità di comprendere l’incomprensibile unicità delle donne. Accoglierla come si accolgono i limiti. Così come è fondamentale che nessuna donna indossi le vesti della madre con lo scopo di redimere.

Il problema della violenza di genere si risolve agli albori, quando ancora essa è assente, ma dove i presupposti della violenza psicologica muovono i primi tentacoli. È un problema complesso che richiede lo sforzo di tutti, di chi potenzialmente potrebbe essere vittima e di chi potenzialmente potrebbe essere carnefice. Poi uno schiaffone, né può indignare né può risolvere. È la risposta robusta dell’uomo del Novecento. Non va delegittimata, ma non scava alla radice del problema. Abbiamo bisogno di tutti. Di donne e uomini che si tengano per mano, e che riconoscano senza paura l’irriducibile alterità dell’altro.

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