Un passo avanti e uno indietro. A sette anni dall’incipit di Mani pulite, la giustizia italiana è ancora all’anno zero.
Tonino ha fatto carriera.
I processi fanno acqua Dal 1992 i giudici milanesi e palermitani hanno scritto e riscritto la storia patria consegnando alle biblioteche sentenze di migliaia di pagine, ma i risultati sono piuttosto modesti. Il Caf – nel senso di Craxi, Forlani, Andreotti – smistava tangenti e accumulava tesori come Alì Babà oppure no? E il divo Giulio, oltre che da Wojtyla, era benedetto anche da Totò Riina? Dobbiamo credere ai Silvano Larini e dobbiamo prendere per vangelo il verbo dei Marino Mannoia?
Mafia e mazzette, la due “m” dell’emergenza Italia: la rivoluzione della legalità tramonta mestamente e gli italiani si ritrovano fra le mani tanti processi che assomigliano maledettamente a quiz: colpevole o innocente? Che sarà dei dibattimenti del secolo di Perugia e di Palermo? E chi ha capito davvero come andò la vicenda Enimont?
“Le prove, le prove, io voglio le prove, io non mi accontento dei pentiti” dice Emanuele Macaluso, diessino garantista. Salvatore Lo Giudice parla di “giustizia-lotteria”; Luigi Scotti, presidente del Tribunale di Roma, ha scolpito l’epitaffio sul processo Marta Russo: “Non sapremo mai la verità”. Perfino sui pedofili, ed è proprio il segno dei tempi, ci si divide e si litiga con un accanimento che ha dell’incredibile e che fa pensare al tifo calcistico più che a una materia tanto scabrosa.
Ma il popolo inizia a ribellarsi Un passo avanti e uno indietro. Lorenzo Artico è innocente o colpevole? Colpevole, ha detto il Tribunale di Milano. Ma sotto la Madonnina, quartiere Barona, c’è addirittura un comitato che difende il buon nome del presunto mostro. E a Modena, fatto sociologicamente inaudito, scendono in piazza perfino suore e preti per dire basta alla Santa Inquisizione – così l’hanno chiamata – dei giudici e degli assistenti sociali che fabbricherebbero pedofili con ritmi da catena di montaggio. Un passo avanti e uno indietro. Abbiamo coltivato per anni l’illusione che i giudici e i loro collaboratori – di mafia, di mani pulite, di tutto un po’, comprese le “voci bianche” dall’innocenza perduta – ci restituissero un paese pulito e trasparente. Ma l’acqua è torbida, l’incertezza della pena l’unica certezza e la folla cerca di linciare i criminali che nuotano come piranha dentro città sempre più insicure. Un passo avanti e uno indietro. La stagione appena conclusa è stata quella, irripetibile, di una nuova giustizia più giusta o, come suggerisce il professor Virginio Ilari – esperto di cose militari, ma non solo di quelle – l’Italia è stata il campo in cui si è combattuta una guerra civile, la quinta comiciando a contare dalle insorgenze anti-giacobine di fine Settecento, non dichiarata e proprio per questo ancora più terribile?
Riforme strabiche e Parlamento imballato L’epoca di Borrelli è finita e il grande kaiser ha deposto la bacchetta che a lungo aveva incantato la gente e aveva calamitato gli uomini del potere. Anche Caselli sta per andarsene e senza nemmeno aspettare quella sentenza Andreotti che in fondo è la cifra della sua permanenza in Sicilia. Impossibile fare bilanci. Le conclusioni le tireranno, quando sarà il tempo, gli storici. Ma non c’è da stare allegri. “La macchina della giustizia è inceppata”, ammette il ministro Diliberto, alludendo ai milioni di procedimenti arretrati – specialmente quelli civili – che intasano le aule dei tribunali. Ci risolleveremo? Si faranno quelle riforme che dovrebbero assicurare un giusto processo a chi oggi ne subisce uno ingiusto, cioè senza potersi difendere? Si faranno quelle riforme che dovrebbero tagliare la lingua biforcuta di troppi pentiti telecomandati? Si faranno quelle riforme che dovrebbero dare efficienza alla macchina in panne?
Si faranno, si faranno, anzi si stanno già facendo, ma con lo strabismo di chi non vuole vedere e con la cadenza approssimativa di un ballo sgraziato: un passo in là, uno in qua, uno avanti e uno indietro. Si fa una legge, sacrosanta, per spostare a Brescia la possibile revisione del processo Sofri e non si fa apposta un’altra legge per assicurare anche a Cesare Previti un gip diverso dal gup. Gip e gup avranno due facce diverse, ma dal 2 gennaio del 2000.
Il Parlamento, strattonato di qua e di là, mette e toglie cerotti come un infermiere inesperto e disorientato. I risultati, per ora, sono modesti e un tantino contraddittori. Il professor Gilberto Lozzi allarga le braccia: “Spiegare la procedura penale ai ragazzi è un’impresa disperata, perché la materia cambia in continuazione e nessuno riesce più a seguire le evoluzioni del legislatore”. Cerotti, bende, garze, ma la febbre resta alta.
Carlo Nordio, pm veneziano controcorrente, osserva: “Abbiamo messo in Costituzione i principi cardine del processo fascista e finché non ce ne libereremo sarà dura”. Addirittura? “Sì, noi dobbiamo separare le carriere di pm e giudici e dobbiamo abolire l’obbligatorietà dell’azione penale, eredità fascista”. E invece no.
La catena di montaggio che assicura l’errore giudiziario L’obbligatorietà resta un dogma, Perry Mason resta confinato in tv, migliaia di fascicoli si abbattono sui singoli giudici. Il rimedio? Si depenalizza, che è come alzare un muro di due metri davanti alla montagna che frana. “Così – spiega un giudice del Tribunale di Milano – non si riesce a lavorare bene. Il rapporto fascicoli-magistrato è assolutamente sproporzionato. Produciamo in automatico, come in una vecchia fabbrica, senza immedesimarci nei casi che abbiamo davanti”. È questo lo snodo fondamentale. E il pretore Enrico Imprudente, quello che aveva concesso i domiciliari a uno dei presunti killer dell’orefice di Milano, ammette: “Ho preso una cantonata, ma ogni giorno processiamo una decina di persone per direttissima, i dibattimenti durano mezz’ora un’ora: non operiamo in assoluta tranquillità”. La casa del diritto è una catena di montaggio che fabbrica insicurezza e che dopo aver preteso di fare la Storia, non riesce a tenere il passo della cronaca. E la cronaca minuta, quella fatta giorno per giorno dai giornali, consegna quotidanamente il bollettino delle vittime del potere giudiziario, singolare contrappasso dopo il tempo delle fanfare e delle toghe infallibili, come il papa dalla cattedra.
Ogni ventiquattr’ore, finita? la rivoluzione, leggiamo i nomi dei riabilitati. Gli ultimi? Sharifa, la donna somala che secondo il pm voleva vendere i figli ed era solo una povera profuga; Valerio, quattro mesi a San Vittore in compagnia di pedofili che si masturbavano, prima di sentirsi dire: lei non ha violentato nessuno. E Daniele, che dopo sette anni e mezzo di galera e una sentenza definitiva che l’aveva promosso al rango di spacciatore, è diventato per i giudici un caso di coscienza. La Corte d’Appello di Genova gli ha detto: non siamo sicuri, ma forse con lei ci siamo sbagliati. Per intanto, si accomodi fuori.