Il fallimento di Vice è la fine del giornalismo acchiappaclic?
C’è una notizia recente che arriva dal mondo dell’informazione, e ha molto da insegnare a chiunque nel mondo faccia giornalismo e da anni si arrabatta a cercare di costruire modelli economicamente sostenibili. La notizia è il fallimento di Vice(che però non chiuderà), annunciato lunedì, una storia che è la naturale conseguenza del declino iniziato anni fa di un brand considerato uno dei simboli più rappresentativi dei nuovi media, e insieme un ammonimento per chi crede che con i contenuti “acchiappaclic” si possa guadagnare abbastanza per tenere in piedi la baracca. Insieme al fallimento di Vice in queste settimane si registra la decisione di BuzzFeed, altro portale di contenuti gratuiti esploso qualche anno fa e arrivato a vincere un Premio Pulitzer nel 2021, di chiudere la sezione news e tagliare del 15 per cento l’organico.
Vice e «l’altare del traffico»
«È la fine di un modello fondato sui click, il crollo della doppia dittatura del traffico e dei social, cioè dell’idea che i contenuti siano semplici supporti pubblicitari, anche quelli giornalistici», ha commentato nella sua newsletter Appunti Stefano Feltri, ex direttore di Domani. «La corsa ai clic era un gioco da pazzi», ha scritto Joe Nocera su The Free Press, raccontando gli inizi pionieristici di Vice, testata fondata da tre ragazzi canadesi a metà degli anni ’90 e arrivata a essere valutata quasi $ 6 miliardi. Nata come rivista, Vice è passata al digitale a metà degli anni 2000 per poi «passare da una cosa all’altra: notizie online, uno show sulla HBO… era difficile starle dietro. Nel 2015 la Disney ha acquisito una quota del 15 per cento della società e si diceva che fosse interessata ad acquistare il resto per ben 5 miliardi di dollari».
Vice adorava «l’altare del traffico», producendo migliaia di contenuti gratuiti pensati per intercettare l’attenzione degli utenti per vendere pubblicità, con i social a fare da vetrina, ma quando si è accorta che non generava abbastanza traffico da sola, ha deciso di includere i numeri dei “siti partner.” Quando ha smesso di farlo, nel 2019, il suo traffico è immediatamente diminuito del 37 per cento.
Da lì il declino: prima Disney ha diluito la propria quota, poi la HBO ha cancellato lo show e «Vice è andata di male in peggio». BuzzFeed News, invece, era nata con l’obiettivo di dare notizie e pubblicare storie che reggessero la concorrenza dei grandi media, pubblicate accanto alle foto di gattini e ai famosi elenchi “le dieci cose da fare…”. Ci è riuscita, ha vinto il Pulitzer, ricevuto complimenti da tutti fino a che un bel giorno si è resa conto che non faceva soldi. E ha chiuso.
L’errore di affidare il proprio destino ai social network
Dopo la sbronza del tutto gratis, negli anni a cavallo del 2010 sono nati fondamentalmente due modelli di giornalismo online: siti come il New York Times, Axios e The Information hanno puntato su contenuti di qualità elevata per cui i lettori fossero disposti a pagare, e poco per volta sono stati imitati dai giornali tradizionali di tutto il mondo, i quali hanno però abituato per troppo tempo i propri lettori a leggere le stesse notizie delle edizioni cartacee senza spendere un centesimo. In questo hanno a lungo ceduto – e tutt’ora nelle loro edizioni online cedono ancora – al secondo modello nato attorno al 2010, quello dei vari Vice, BuzzFeed, Vox, Gawker, che hanno puntato tutto sul traffico: l’idea era che se fossero riusciti a generare un numero sempre maggiore di utenti pronti a cliccare, sarebbero stati ricompensati con un numero sempre maggiore di annunci pubblicitari e quindi di entrate sempre maggiori.
«Senza volerlo davvero», dice Nocera, «hanno finito per affidare il loro destino a uno dei monopolisti più voraci del mondo: Facebook. E quando hanno capito cosa avevano fatto, il gioco era finito». Come lo scorpione con la rana che lo trasporta dall’altra parte del fiume nella favola di Esopo, Facebook ha usato i media che generavano contenuti virali fino a che non ha capito che le conveniva puntare sui contenuti generati dagli utenti. La previsione era che stare soprattutto sui social, producendo contenuti non propriamente da giornale di informazione, avrebbe portato una marea di giovani lettori che gli inserzionisti avrebbero sfruttato. Non è stato così.
I lettori ci sono, i soldi no. Cosa insegna il caso Vice
Come spiegano Lauren Hirsch e Benjamin Mullin sul New York Times, «sebbene i lettori arrivassero a milioni, le nuove società di media hanno avuto problemi a strappare loro profitti e la maggior parte dei soldi delle pubblicità digitali è andata alle principali piattaforme tecnologiche». L’idea di raccogliere denaro dagli investitori promettendo di raggiungere i millennials con articoli come “Ho provato il vibratore più flessibile del mondo”, “10 modi per iniziare a fare qualcosa”, “Il mio instancabile tour delle cotolette alla milanese a Milano”, “Sono stato a mangiare in un posto a Roma che serve solo cucina dell’Est Europa” o “Perché dopo i 25 anni è più difficile farsi degli amici?”, non funziona più.
«Sta finendo un’epoca», ha scritto ancora Feltri, «quella dei contenuti pensati per spostare traffico da una piattaforma a un sito, quindi su misura della piattaforma invece che del lettore. Se non c’è il traffico e manca la pubblicità fondata sui grandi volumi abbinata, che incentivo c’è a produrre contenuti spazzatura? O a produrre così tanta spazzatura da poter pagare anche un po’ di giornalismo serio, come ha fatto BuzzFeed imitata da tante altre testate, anche in Italia?». Lettori disposti a pagare per contenuti originali e ben fatti si trovano, ora che la corsa al clic sembra avere subito una significativa battuta d’arresto, è sempre più importante scrivere meno ma scrivere meglio. A oggi il modello di informazione online che regge è quello degli abbonamenti (a proposito, cliccate qua) a contenuti a pagamento. In attesa del prossimo.
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