L’eutanasia e l’incredibile amore a un figlio che non ha mai spostato una briciola di Pil

Di Andrea Alberti
19 Settembre 2021
Una testimonianza che smonta tutti gli slogan sulla legalizzazione della morte assistita come “battaglia di civiltà”, “amore” e “libertà”
Banchetto di raccolta firme per il referendum sull'eutanasia legale
Banchetto per la raccolta firme per il referendum sull'eutanasia legale organizzato dai radicali a Roma

(Redazione) – Si può chiamare “battaglia di civiltà”, “estremo atto di amore” e imbellettarla finché si vuole, ma purtroppo dietro la corsa all’“eutanasia legale” ci sono anche (soprattutto) motivazioni talmente prosaiche da risultare indicibili (e piuttosto che dire l’indicibile, si preferisce dire uno slogan). Per non parlare delle strumentalizzazioni politiche, o meglio elettorali.

Se fosse davvero una questione “di civiltà” o di “morire con dignità”, si tenterebbe qualunque cosa prima di arrivare a proporre, addirittura con referendum popolare, la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente. Cosa che, come ricorda Alfredo Mantovano nel numero di Tempi di settembre, «è qualcosa di ulteriore e di più grave dell’aiuto al suicidio, in quanto il consenso della vittima può pure prescindere da sofferenze in atto».

Se a tema ci fosse davvero il dolore delle persone, la corsa non sarebbe all’eutanasia nel nome della “libertà”, bensì al mettere finalmente in atto (= finanziare) la legge sulle cure palliative approvata nel 2010 e di fatto rimasta inapplicata. E invece di celebrare il gran numero di firme raccolte dai radicali per il loro referendum mortifero, ci si scandalizzerebbe per i casi come quello di Vincenzo Montrone, già primario di Terapia del dolore all’ospedale Cardarelli di Napoli. Creatore di un reparto di eccellenza nazionale per le cure palliative, Montrone è giunto a minacciare lo sciopero della fame perché di fatto – ha denunciato – mentre tutti si riempiono la bocca di “sofferenze indicibili” da alleviare, quel fiore all’occhiello della sanità campana è in via di smantellamento.

Dall’intervista a Montrone pubblicata dal Mattino di Napoli:

«“I tentativi di chiuderlo sono iniziati nel 2016, quando ero ancora primario. Io avevo un reparto che era un fiore all’occhiello, con personale infermieristico selezionato ad hoc: oggi ci sono appena due medici ed è stato accorpato ad un’altra unità. Ma la cosa peggiore è che ci sono solo due stanze, con quattro posti letto totali, il che significa che un malato terminale vede morirgli una persona accanto, e sa che presto toccherà a lui. È disumano”.
Non è però l’unico reparto ad essere stato accorpato ad altri durante il Covid-19.
Ma ora che si sta tornando alla normalità, è l’unico che non è stato ripristinato”.
[…] La sua lotta ricorda le vicende legate all’eutanasia: pensa ci sia un legame?
Io stesso ho pubblicato lavori, in cui ho scritto che l’eutanasia è un falso problema. Se parliamo di ammalati tumorali terminali, dobbiamo, infatti, chiederci quando un uomo chiede ad un altro di ucciderlo: la risposta è quando ha sofferenza o dolore incontrollabili. In 40 anni ho avuto 5 richieste di eutanasia, di cui 2 solo reiterate. Questo vale, ovviamente, per il malato oncologico che ha aspettativa breve: se ci fossero reparti dedicati come il mio, nessuno vorrebbe l’eutanasia”.
Cosa farà se anche questo appello resterà inascoltato?
Mi accamperò fuori al Cardarelli in sciopero della fame: devo farlo per i pazienti e per la loro dignità”».

Sono obiezioni opposte ai fan dell’eutanasia legale dai colleghi di Montrone anche in Spagna e nel Regno Unito. Ma sono destinate a essere poco ascoltate perché implicano lavoro e fatica, quando abbiamo a disposizione una soluzione «in apparenza facile e meno costosa» (ancora Mantovano).

Altro che “atto di amore”, la verità è che è la corsa all’eutanasia legale è nel migliore dei casi la presa d’atto di una terribile sconfitta. Lo racconta in maniera illuminante Andrea Alberti, presidente dell’Associazione Il Disegno, in una lettera recentemente ospitata dal Corriere Cesenate e che riproponiamo di seguito.

* * *

Caro direttore, in questi giorni ho ricevuto diverse richieste di affrontare la questione dell’eutanasia in quanto presidente di un’associazione di volontariato che si prende cura del tempo libero di amici affetti dalle più diverse disabilità. Alcuni di loro hanno solo lievi ritardi, altri sono costretti su una sedia a rotelle e da tutta la vita lottano con un’improbabile capacità comunicativa anche solo per chiedere un bicchiere d’acqua. I più gravi tra l’altro associano condizioni fisiche, motorie e comunicative drammatiche ad una assoluta lucidità di pensiero.

Frequento l’associazione il Disegno da circa 30 anni e da quasi 15 ne sono il presidente. Ma tutto questo che diritto mi dà di parlare di eutanasia? Nessuno. Nulla di ciò che si fa, nessun mestiere, nessuna opera di volontariato e neppure nessuna condizione personale o familiare dovrebbe dare il diritto di affrontare un argomento così delicato se non parlando di sé. Ed è questo che farò, racconterò ciò che è successo a me e che ha cambiato la mia personale visione su questo argomento, ribaltando il mio precedente punto di vista.

Una settimana fa sono stato all’ennesimo funerale di una persona disabile (Marcello) che per tantissimi anni ha frequentato il Disegno e che io ricordo fin da quando sono piccolo. Ultimamente ho partecipato a molti funerali di amici del Disegno che se ne sono andati senza aver fatto nulla di memorabile su questa terra, senza aver “cambiato le cose” (come direbbero gli americani) o lasciato un’impronta nella storia. E mi sono accorto che non imparo mai, faccio sempre lo stesso errore.

Come quando Michele e Roberta mi chiamarono in ospedale perché stava morendo il loro amato Simone, come quando la madre di Gianni mi disse tra le lacrime che la sua piccola peste ci aveva lasciato. Non imparo mai. Tutte queste volte e anche la settimana scorsa, mentre guidavo verso il funerale di Marcello ho pensato la stessa cosa: “Bene, finalmente adesso i suoi genitori saranno in pace e sollevati”. E mentre lo ripetevo tra me e me, pensavo a tutta la fatica che un figlio come Marcello ha fatto fare ai suoi genitori, quella fisica e quella psicologica.

Pensavo che in 55 anni non ha mai fatto un passo da solo, non ha mai detto una parola, non ha mai mangiato o bevuto e non è andato in bagno senza che i suoi genitori fossero lì. E poi pensavo che in 55 anni Marcello non ha compiuto nessun progresso, non ha costruito nulla per questo mondo, non ha migliorato la società in alcun modo, non ha studiato e tanto meno ha mai prodotto qualcosa che aumentasse il Pil anche solo di una frazione di punto. Non poteva fare niente se non utilizzare uno strano strumento come fosse una pistola in mano ad un bimbo dell’asilo. Ed anche se gli anni passavano continuava a stringere quella strana pistola e a produrre un rumore storpiato di uno sparo bambino, per più di 50 anni.

Guidavo verso il funerale e pensavo: che sollievo per quei genitori non dover più fare tutto questo e trovare finalmente un po’ di ristoro, un po’ di pace.

Sempre lo stesso errore. Ancora. Come per Simone. Come per Gianni.

E poi, incredibilmente, incontro quelle persone che dovrebbero essere sollevate perché il loro figlio capace di nulla aveva finalmente tolto il disturbo da una vita priva di soddisfazioni ma farcita di sofferenza e fatica. E invece no. Piangono, soffrono, lo vorrebbero lì, darebbero tutto per riaverlo indietro, per tornare ad imboccarlo, lavarlo, pulirlo, metterlo a letto ed alzarlo. Come sempre. Come hanno sempre fatto per tutta la vita, una vita che non hanno scelto ma che hanno abbracciato senza paura, senza dubbi, senza misura!

Non si sopporta una vita così con lo sforzo personale, non basta, non regge. Se lo sforzo non diventa sacrificio, nel senso etimologico del termine (sacrum facere, rendere sacro), la fatica e lo sconforto avranno il sopravvento. Prima o poi, ma sarà così. Quei genitori non erano sollevati dalla morte di Marcello perché durante tutta la sua vita hanno reso sacro il loro fare, perché quel figlio valeva come tutto il mondo e in ogni gesto, per quanto faticoso e doloroso fosse, lo dimostravano.

Cosa c’entra questo con l’eutanasia?

C’entra! C’entro io ed il mio stupore davanti a chi è capace di amare così.

Io saprei amare così? In modo completamente gratuito, senza nessuna umana soddisfazione, senza alcun orgoglio paterno, senza che nessuno mi dica mai “che bel figlio”, “come è bravo” e “chissà che soddisfazione ti dà”?

Non giudico chi non riesce più a sopportare il dolore di una vita difficilissima e tanto meno mi permetterei di farlo nei confronti di coloro che non sopportano di vedere soffrire ulteriormente i propri cari. Non sono capace di entrare così dentro quei cuori. Non posso permettermelo. Non sarebbe giusto, neppure Dio vìola la libertà di ognuno di noi. E, sinceramente, non so nemmeno io cosa farei se mi trovassi a vivere una situazione così. Non lo so e non lo saprò davvero fino a che non mi capiterà. Le chiacchiere sono una cosa, la carne che urla di dolore è un’altra. Ma per l’ennesima volta la mia visione è stata ribaltata da una lezione di amore infinito, invincibile, totalizzante e gratuito.

Allora la domanda che mi pongo è un’altra: ma se sapessimo amare come quei genitori, se sapessimo prenderci cura del dolore delle persone, sostenerne la fatica, lenire le ferite che la malattia infligge al corpo e all’anima, davvero l’eutanasia sarebbe un argomento di cui discutere? Se chi soffre si sentisse amato di un amore infinito, gratuito e totalizzante come si sono sentiti amati Marcello, Simone e Gianni, davvero desidererebbe privarsene? Davvero il dolore può vincere sull’amore?

Allontanandomi da quel funerale pensavo che non potrei mai giudicare qualcuno perché si arrende al proprio immenso dolore, non è giusto e non lo farò mai. Ma non addolciamo una pillola amarissima, non travisiamo la realtà solo perché fa troppo male. Non sacrifichiamo la verità sull’altare dell’ideologia: legalizzare l’eutanasia non corrisponde a rendere possibile un estremo atto di amore ma al riconoscimento triste che non siamo capaci di amare come i genitori di Marcello, Simone e Gianni.

Andrea Alberti
presidente “Il Disegno”

Foto Ansa

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