Europa sovietica

Di Bottarelli Mauro
25 Novembre 2004
Mentre i governi si fanno scudo del rapporto deficit/Pil per non riformare, la Gran Bretagna accusa: nel mercato unico non c’è traccia di liberismo

«I parametri Ue rischiano di non essere più virtuosi né per l’Italia, né per l’Europa. La riduzione delle tasse, poi, non è mai indolore». Parole, scandalose per questa Italia dal freno a mano tirato, del presidente del Senato, Marcello Pera, che rincara la dose chiamando finalmente le cose con il loro nome: «Vedo nella cultura della destra italiana e anche del centro, un senso quasi di nostalgia, di ritorno a vecchie formule e contenuti. La destra sociale, poi, rappresenta una contraddizione in termini che può al massimo esistere in un paese sudamericano». Apriti cielo. Sinistra, centristi della Cdl e An sono subito corsi al capezzale del povero Pier Ferdinando Casini, impallinato dalle dichiarazioni di Pera suonate alle orecchie dei più come una risposta alla denuncia di avventurismo lanciata dal devoto della Madonna di San Luca verso la politica di taglio delle tasse annunciata da Berlusconi: e, come sempre, a far da scudo alle ragioni della conservazione si chiama in causa il dogma europeista, i parametri magici, il totem del famoso rapporto deficit/Pil sotto il 3% che sta incatenando le economie di mezzo continente e bloccando qualsiasi spin off di ripresa aggravando la crisi innescata dalla quotazione del super-euro sul dollaro. Già, le sacre regole dell’Europa, la concorrenza, il libero mercato comune: belle parole, cui non seguono mai i fatti, però. A dirlo chiaro e tondo ci ha pensato all’ultima riunione dell’Ecofin il ministro delle Finanze britannico, Gordon Brown, che ai talebani delle regole comunitarie ha sbattuto davanti agli occhi un rapporto commissionato dal suo dicastero e coordinato dal responsabile inglese della multinazionale delle Tlc Siemens, Alan Wood.
Il contenuto? Da brividi per chiunque non ritenga il libero mercato e la concorrenza un furto al pari della proprietà privata: in Europa esiste un capillare lavoro di boicottaggio delle più elementari norme di liberismo economico, con i principali governi impegnati in opere di protezionismo e monopolio degne di un regime sudamericano. Lo studio, infatti, parla chiaro: le ditte britanniche, nonostante nella stragrande maggioranza dei casi avessero presentato proposte più che concorrenziali rispetto a gare d’appalto europee, sono sempre state battute da aziende del paese che indiceva la gara. Un business, quello del mercato unico, da mille miliardi di sterline (circa 1.500 miliardi di euro) l’anno, dal quale le aziende del Regno Unito sono quasi completamente tagliate fuori grazie ai trucchetti di Francia, Italia, Germania e Spagna. Qualche esempio? Oltre ai già citati casi di non concorrenzialità delle cifre proposte da molte aziende risultate vincenti nelle gare, ci sono pratiche sistematiche di falsi contatti con aziende estere soltanto per ottenere un abbassamento delle richieste da quelle interne oppure ancora casi di pressione, anche politica, su fornitori nazionali per garantirsi cifre ad hoc. Ma non è tutto. In base al dossier presentato da un furibondo Gordon Brown a Strasburgo, inoltre, nel 2002 soltanto il 16% dei contratti è stato pubblicizzato all’estero, ovvero ha visto indetta una vera e propria gara d’appalto a livello continentale: d’altronde, 106mila progetti in un anno sono troppi da monitorare per la Commissione chiamata a vigilare sulla concorrenza e sul rispetto delle regole. Le stesse che vengono quotidianamente disattese dai governi europei che, quando un contratto supera la soglia per la quale è obbligatorio indire un gara d’appalto in ambito europeo, non fanno altro che spaccare artificiosamente il progetto in cinque, dieci mini tronconi al fine di poter gestire come si preferisce il bando: e far vincere l’azienda di casa nella maggior parte dei casi a cifre decisamente più alte della concorrenza estera. è il caso di un grosso contratto per la costruzione di scuole a Genova, non pubblicizzato perché diviso in tanti contratti separati. C’è poi la vergognosa pagina degli aiuti di Stato alle aziende, Alitalia in testa, con la Gran Bretagna ultima in classifica per denaro versato nelle casse delle aziende (3,9 miliardi di sterline nel 2002, pari allo 0,25% del Pil), mentre la Francia (con il caso Alsthom), la Germania (aiuti all’industria del carbone) e l’Italia (il prestito-ponte per Alitalia) continuano allegramente a dimenticarsi dell’abc del libero mercato. In compenso, guai a sforare di uno 0,1% il miracoloso parametro di Maastricht!

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