Eroi per caso di una notizia che non c’è

Di Marina Corradi
13 Novembre 2003
Perchè ci sia notizia, ai giornalisti occorre almeno un morto.

Perchè ci sia notizia, ai giornalisti occorre almeno un morto. E di morti, domenica 2 novembre alla casa di riposo San Giuseppe, via delle Ande, periferia ovest di Milano, non ce ne sono stati, ma per un soffio. Immaginate un istituto per anziani alto sei piani, con 180 ospiti, 150 dei quali non autosufficienti, moltissimi a letto, o in carrozzella. E il metano, gas quasi inodore, che inavvertito ha completamente saturato lo stabile: una scintilla, e saltava tutto. È questa la situazione che alle 10.30 di quella domenica i vigili del fuoco si trovano davanti. Nella quiete della mattina di festa, scatta l’allarme via radio: polizia, vigili, altri mezzi dei pompieri corrono al quartiere Qt8, lacerando con le loro sirene l’ultimo sonno della città. È allarme di quinto grado, il più elevato. Quel palazzo pieno di metano è una bomba. Prima misura, staccare la corrente in tutto il quartiere. Ma come scenderanno ora, dai piani alti, gli ospiti bloccati a letto, o in carrozzella? Centocinquanta vecchi incapaci di muoversi in un palazzo gonfio di gas. Peggio: molti di loro non sono lucidi. Però, qualcuno conserva l’abitudine di fumare. E adesso, non c’è il tempo di spiegare che non deve. C’è solo fretta, una fretta maledetta. Giù nel piazzale, fra pompieri e poliziotti e vigili e operatori dell’istituto, saranno in cinquanta. C’è solo una cosa da fare: buttarsi dentro, salire le scale fino all’ultimo piano, prendere in braccio ad uno ad uno quei vecchi e portarli giù, nell’aria satura di un gas che non ha quasi odore, ma che è pronto a esplodere. Questo vuol dire che cinquanta uomini, con a casa una moglie e dei bambini, devono rischiare la vita per dei vecchi mai visti, malati e comunque non lontani dalla fine. Non c’è tempo per pensare molto, nello slargo tra gli alberi e le case di via delle Ande. Comunque, ognuno decide. E ognuno va: sale di corsa le rampe, prende in braccio un uomo incapace di fuggire, fragile e spaventato, e carico di quel peso ridiscende fino a terra. Poi, risale. In silenzio, in ordine, con calma. Dalle case vicine qualcuno che sta a guardare capisce, e come contagiato entra anche lui nell’istituto, anche lui sale e porta giù un ospite. Intanto si spalancano le finestre del palazzo, il metano, fuoriuscito da un tubo sotterraneo, si va disperdendo. In quarantacinque minuti tutti sono salvi, fuori. Chi sta a osservare se ne resta silenzioso. Non è morto, grazie a Dio, nessuno, non ne parleranno i giornali, ma questo è un piccolo 11 settembre, anche qui i soccorritori risalivano le scale di un palazzo che poteva crollare in un istante. I vigili del fuoco ti dicono: è il nostro mestiere, l’abbiamo scelto. Ma, gli altri, il giovanissimo poliziotto, o il vicino passato di lì per caso? «Credo che in queste persone – dice il responsabile dell’istituto San Giuseppe, Salvatore Corea – sia scattata una sorta di solidarietà ultima. Qualcosa di profondo, che nel momento estremo ti rende un uomo». Come se, per un’ora, un’umanità più grande, come una grazia inaspettata, fosse passata per quella periferia di Milano.

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