
Embargo petrolifero contro l’Iran: «Scelta miope da parte dell’Italia»
Gli Stati Uniti sono «determinati a impedire all’Iran di mettere in atto il proprio programma nucleare» e per fare questo «non escludono alcuna opzione». Il presidente Barack Obama ha approfittato del suo terzo discorso sullo stato dell’Unione per rispondere alle critiche di chi lo accusava di essere eccessivamente morbido nel trattare con Teheran. La crescente tensione con l’Occidente ha portato il presidente Ahmadinejad a minacciare la chiusura dello stretto di Ormuz, una delle rotte petrolifere più importanti del mondo, e l’America e Israele a pensare a un attacco militare dei siti nucleari iraniani. L’Occidente ha anche fatto varcare lo stretto alla portaerei «Lincoln», scortata da unità americane, inglesi e francesi. Una soluzione pacifica è ancora possibile? Sì, ed è comunque la migliore, a patto che l’Iran «decida di cambiare direzione e di attenersi ai suoi obblighi». Ma davvero dobbiamo aspettarci la terza guerra mondiale? E quali conseguenze avrà l’embargo imposto dall’Unione Europea sul petrolio iraniano? Secondo i dati rilasciati dall’Unione petrolifera italiana, da gennaio a novembre 2011 l’Italia ha acquistato dall’Iran, suo quarto fornitore, il 13,2% del suo import di greggio. E ora si appresta a rinunciarvi pur di spingere all’interruzione del programma nucleare di Teheran.
Un tentativo più che legittimo. Ma sarà anche efficace? Carlo Pelanda, professore aggiunto di Affari internazionali presso la University of Georgia, spiega a tempi.it che quello fra Usa e Teheran è un banale e ormai scontato «gioco delle parti». Che non conviene a nessuno: il blocco delle importazioni rischia di causare rilevanti danni economici a Italia, Grecia e Spagna. Mentre l’Iran potrà agevolmente rifarsi con India e Cina, senza ripercussione alcuna. Insomma, si tratta di «una misura sostanzialmente irrilevante». E persino dannosa: «L’Europa si è consegnata economicamente alla Cina. Le misure di embargo hanno senso solo se generalizzate». Per adesso il premier cinese Wen Jiabao si è schierato “moralmente” contro la possibilità che l’Iran sviluppi e possegga armi nucleari, ma ha anche specificato che «il commercio petrolifero fra Cina e Iran è una normale attività di commercio. Il commercio legittimo deve essere protetto, altrimenti l’ordine economico del mondo cadrebbe nel caos».
E sul piano politico? Cosa cambierebbe per il regime? «L’eventuale peggioramento delle condizioni economiche iraniane non ha la forza di destabilizzarlo. Anche perché durante la rivoluzione iraniana l’America si è rifiutata di aiutare le forze ribelli. E non ha difeso gli sciiti nazionalisti iracheni. Ora sono più deboli, e c’è il timore che l’Iran si spacchi. Da una parte Teheran vede bene questo esito, perché sarebbe segno del fallimento dell’intervento americano nella regione. Dall’altra parte, non vuole premere l’acceleratore fino in fondo. Perché potrebbe crearsi un problema diplomatico con i turchi». Resta il fatto che l’Iran sta sperimentando l’installazione di bombe atomiche su missili già da un anno, nonostante il regime di Ahmadinejad si sia sempre ben guardato dall’annunciarlo ufficialmente. «Se cade nella trappola, e si dichiara potenza nucleare, scatta la legittimità dell’attacco preventivo. Ma nessuno vuole farlo davvero, nemmeno l’America, a cui la spaccatura nel mondo arabo conviene: la vendita di armi è un business importante». Come andrà a finire? «Un equilibrio di terrore, multiplo. Dove tutti hanno la possibilità di fare del male agli altri, ma nessuno fa il primo passo». Nel frattempo, chi ci guadagna? «Ovviamente la Cina. Che resta ferma. Gli europei hanno fatto una scelta miope».
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